Sensei Crew, rap e basket stanno bene insieme

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Una crew. Una sfida: calcio contro basket. E hip-hop contro tutti. Il basket secondo la Sensei Crew.

Una crew. Ovvero un collettivo, una cooperativa sociale, un’addizione senza la necessità della prova del nove. Nel caso della Sensei Crew aggiungiamo il termine, desueto ma pur sempre efficace, di supergruppo. Nato dal legame di sangue tra alcuni dei nomi più importanti della scena hip hop sarda. Eccoli lì, tutti insieme, a fatturare rime senza soluzione di continuità: gli m.c. Giocca e Vlade, il beat maker Mr. Nobody. E poi l’illustratore Antonello Becciu, uno che ci dà di spray, e il dj Frankie Krueger a distribuire a piene mani un bel tot di scratch. Rap a go-go, condensato in due album, “Sensei”, dato alle stampe nel 2013, e “Sensei 2”, uscito cinque anni più tardi. Certo, per quel che riguarda i titoli dei dischi, ci vorrebbe un po’ più di fantasia, ma son particolari di poco conto. La sostanza dice altro. E conferma, tra le tante cose da confermare, che rap e pallacanestro stanno bene insieme. In “Sensei”, per esempio, spicca un pezzo che si chiama “Basket”. E non può essere un caso.
“Basket” se lo dividono Giocca e Vlade su di un tappeto musicale di chiara ispirazione funky. Il testo viaggia su coordinate già conosciute e percorse da altri rapper: si chiamano in causa vecchie conoscenze della NBA come l’immancabile Michael Jordan, i sempiterni Larry Bird, Dennis Rodman, Kobe Bryant e Lebron James, all’appello non mancano nemmeno la tecnica cestistica e qualche schema di contorno, richiamati sin dalle prime battute del brano (“Io gioco a basketball, pallacanestro, alley-oop, pick and roll, gioco spalle a canestro”, attacca Giocca).

Qualcosa cambia nel momento in cui si comincia a parlare anche di calcio e di calciatori, e non certo per esaltare lo sport della pedata: lo scopo è quello di lanciare una sfida, di far capire al mondo, o giù di lì, qual è lo sport più bello del mondo. Una sorta di dissing, inaugurato dalle parole scandite da Giocca: “Mi dicevano: gaggio (termine sassarese con il quale si indica una persona stupida, che non sa comportarsi, nda), tu non giochi a calcio, rispondevo gaggio tu e Roberto Baggio, io mi alleno finché schiaccio, dammi un bacio sopra il culo se così non è per te. Non c’è niente come il gol, certo c’è il tiro da tre fratè. E non puoi certo compararlo, il basket è più figo sia a guardarlo che a giocarlo: praticalo come il rap e saprai volare (…). È il gioco più spettacolare, faccio ciuff, allungo il braccio e spezzo il polso”.
A Vlade (un nickname, chissà, ispirato a Vlade Divac) non rimane altro che incalzare e ribadire il concetto: “(Il basket) è un gioco di squadra, guarda e impara, passa la palla oppure nada. Il tuo quintetto di fighetti… sembran calciatori, attori, tronisti, simulatori. Noi guerrieri sul campo come Golden State contro le tue fake, blocchi di cemento, muratori”. Chiaro che alla fine a vincere è il basket, chi vuoi che se ne importi del calcio? E non poteva essere altrimenti quando a tirare le fila del discorso c’è la Sensei Crew. E il loro non è solo un discorso di spettacolarità, di emozioni, di uno scontro titanico tra fighetti e muratori che edificano blocchi di cemento. In fondo, è merito della cultura hip-hop, di come si fa ciuff rappando frasi una dopo l’altra. Una filosofia ben riassunta tra le parole di “Basket”: “Sul campo come sul palco puoi tentare di stopparci ma saltiamo più in alto, fammi un assist che la schiaccio come il basket, nient’altro”. Sì, perché non ammetterlo? Basket e rap stanno bene insieme.

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 6 gennaio 2020)

Il brodo indigesto degli Skiantos

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Freak Antoni e Nino Pellacani, nei rispettivi ruoli di competenza, amavano il basket. Il brodo invece no, quello andava di traverso a entrambi…

Roberto “Freak” Antoni e Nino Pellacani. Profeta del rock demenziale il primo, nonché guida spirituale dei seminali Skiantos, anima trasgressiva del ’77 bolognese e autore di aforismi scolpiti nella roccia (avete presente il detto “La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo”? Già, è suo). Pivottone roccioso dalla grinta non comune l’altro, oltre che bandiera della Fortitudo Bologna degli anni ’80, alle spalle una vita a sgomitare sotto i tabelloni e uno scudetto vinto a Treviso nel 1992. Due storie apparentemente distanti le loro ma accomunate da una stessa passione: quella per il basket.
Freak era un tifoso della F, secondo alcune fonti in modo sfegatato, secondo altre in maniera compassata. Fatto sta che, nel 2002, prima di uno dei tanti derby con la Virtus, gli Skiantos si trovano fuori dal palasport di Casalecchio di Reno per improvvisare un concerto e il loro leader indossa una t-shirt con la scritta “Odio il brodo” bene in evidenza. Uno slogan farina del sacco del già citato Pellacani, coniato anni prima, non appena il marchio Knorr finisce sulle canotte delle V nere. Un abbinamento che copre gli anni tra il 1988 e il 1993 (per onor di cronaca, la multinazionale tedesca sponsorizzò la Virtus anche tra il 1962 e il 1965), un quinquennio fortunato per la squadra allora guidata del rampante Ettore Messina, succeduto nel 1989 a Bob Hill. In quel lustro, i virtussini chiudono in bacheca due Coppa Italia, una Coppa delle Coppe e il primo di tre scudetti consecutivi. Certo, nulla a che vedere con il Grande Slam del 2001, ma intanto l’altra parte di Bologna rosica non poco.

Freak Antoni adotta la maglietta anti-Virtus già a partire dai tour degli Skiantos di fine anni ’80, alternandola ad altre non meno feroci o grottesche, come “Jovanotti for deficient” o “Sesso orale? Parliamone”. Chi la legge e non è ferrato di palla a spicchi non capisce e si limita a collegamenti arditi con la canzone “Eptadone” (nel cui testo appare il tormentone “le massaie fan la coda per comprare la mia broda”) oppure con la copertina del singolo “Fagioli”. Ma per ascoltare una canzone che richiami esplicitamente Nino Pellacani e le sue tre paroline magiche bisognerà aspettare anni, molti anni.
È il 2009 quando esce “Dio ci deve delle spiegazioni”, quello che rimarrà, purtroppo, l’ultimo album in studio degli Skiantos. La premiata ditta Freak Antoni/Dandy Bestia sfodera un lavoro che richiama le origini della band: il suono è rozzo, grezzo e volgare, inserito tra asperità punk e frequenti puntate hard. La traccia numero nove si intitola “Odio il brodo” e il cerchio si chiude.
È un pezzo bello carico che, forte delle sue velleità post-demenziali, si scaglia contro le complicazioni della vita, il lavoro, la depressione e non risparmia frecciate ad altri nemici giurati dell’umanità come l’alito cattivo e la lana ruvida. E il basket? E la Virtus? Li troviamo coinvolti nell’attacco, quando la voce sgraziata di Freak urla la sua rabbia nei confronti del “nodo quando si scioglie, (del)la squadra ricca quando stravince”. Segnale che il testo del brano è stato scritto anni prima, quando le V Nere vincevano davvero e dall’altra parte si collezionavano dieci finali playoff in undici stagioni perdendone otto, con il “tiro da quattro” di Sasha Danilovic simbolo e madre di tutte le sconfitte fortitudine. E soprattutto, quando “Dio ci deve delle spiegazioni” esce nei negozi di dischi, la Fortitudo è all’ultima apparizione in serie A, da parte sua la Virtus vi è rientrata da appena tre stagioni. Già, Basket City, in quel momento, è un pallido ricordo.

Freak Antoni lascia la nostra valle di lacrime lo scorso 12 febbraio. E nella camera ardente allestita a Palazzo d’Accursio di Bologna, a un certo punto spunta una palla a spicchi arricchita dalla firma dei giocatori della Fortitudo. Manca quella di Nino Pellacani, che nel frattempo è diventato uno stimato grafico pubblicitario. Ma è come se fosse stata lì, assieme a tutte le altre.

Gigio Gresta, l’ineffabile

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Allenatore e musicista. Pick and Rock ospita Gigio Gresta, coach dalla vena cantautorale che quando ha qualcosa da dire… canta!

Le polemiche fioccano come le nespole. E se sei un fan dell’immenso Aldo Biscardi sai bene cosa significa. Sai che più di una frase a effetto si tratta di un dogma, di un assioma, di un principio fondamentale, di una verità rivelata, di una certezza. Perché la polemica è il sale della vita, perché tira più un pelo di polemica che un carro di buoi. Nemmeno noi iscritti al club della palla a spicchi potremmo mai farne a meno e se solo avessimo la possibilità di stilare l’elenco di tutte le discussioni animate che si sono succedute dai tempi di Nino Calebotta ai giorni nostri, non la finiremmo più. Perché anche tra le nostre lande si litiga, si fa la voce grossa, ci si scambia gelati al veleno. E ognuno reagisce come può: replicando a brutto muso, restando indifferente, oppure scrivendo una canzone. Già, c’è pure chi se la cava in questo modo qua.
Ma riavvolgiamo il nastro e facciamo mente locale. Campionato di serie A 2012/2013, la Vanoli perde, di brutto, in casa con Milano: è la sesta sconfitta in otto partite. Attilio Caja è esonerato, il club di piazzale Lanzini decide di sostituirlo con l’assistente Luigi “Gigio” Gresta. E sin qui nulla di strano, tranne per un particolare: Caja se ne va su Sky Sport e attacca a testa bassa, in primis la società che lo ha scaricato poi il suo ex vice: “L’acquisto più inutile è stato quello di Gresta. L’ineffabile Gresta”. La replica dell’interessato è soft ma non troppo: “Non mi aspettavo queste parole perché nel lavoro quotidiano ho avuto completa fedeltà. Siamo persone diverse, se lui la pensa così continuerò a stimarlo solo come tecnico”. Risposta dal retrogusto acido, ma è solo la prova generale di quello che accadrà da lì a poco.
Per farla breve: Gresta vince undici delle ventidue partite che rimangono da giocare e Cremona rimane in massima serie. Una salvezza da festeggiare come si deve. 8 maggio 2013, dirigenza, squadra e staff si danno appuntamento all’Agriturismo del Cortese di Soncino: si mangia, si beve, si suona e si canta con i “Pooi”, band estemporanea con il Gigio alla voce. L’ultima canzone in scaletta si intitola “Ineffabile” (sotto il video pubblicato su La Provincia di Cremona), indovinate di cosa parla e a chi è dedicata. “Guardami negli occhi, sono l’ineffabile, puoi salutarmi tanto non mi sento inutile. Non voglio più lacrime nel mio giardino ma il mio sorriso da condividere con voi”. Il succo del testo è tutto in queste poche parole: la replica definitiva a Caja.

Quella sera tutti scoprono l’alter ego del Gresta coach, uno che lavora in palestra e poi, finiti i compiti a casa, scrive canzoni. Gigio è di Pesaro, lì di basket e musica si mastica da una vita. Lui suona chitarra e tastiera sin da ragazzino, un giorno fa un provino per entrare in un gruppo ma pochi minuti prima aveva finito di allenare e al momento di avvicinarsi al microfono scopre di non avere più voce! Buon per lui, anche se la passione per la musica non scema, anzi. “Se sono in auto, o a passeggio – confida a DailyBasket – e mi viene in mente una melodia prendo l’Iphone e la registro con il classico ‘nanananana’, come quando si canticchia una canzone della quale si ignora il testo. Il mio telefonino è pieno di ‘nanananana’, spero che nessuno se ne impossessi o lo sputtanamento sarebbe immediato! Poi, una volta a casa, mi metto al piano o prendo la chitarra e traduco il ‘nanana’ in accordi e note. Quando il tutto prende corpo metto giù le parole, per le quali, però, ci vuole l’ispirazione, qualcosa che le possa spingere, farle uscire fuori. Per una delle ultime mie creazioni, ‘Passeggiata in centro‘, mi è capitato di scegliere parole e musica contemporaneamente.
La scrissi all’indomani del mio esonero da Cremona. Non ero mai salito sul Torrazzo, la splendida torre campanaria. del Duomo. Era un nebbioso pomeriggio di dicembre, uscii di casa con la chitarra e salii i tanti gradini, una volta in cima (ero solo, quindi nessuno poteva prendermi per pazzo), cominciai a scrivere e suonare. L’atmosfera era stranissima e malinconica, si percepiva il suono dei violini dei tanti liutai della città. Una volta a casa la suonai con il pianoforte, lo strumento più adeguato a esprimere la mia tristezza. La cosa buffa fu che, attraverso Facebook, un amico-tifoso cremonese, Gabriele, contribuì ad aggiustare il testo. Fu divertente”.

Di pezzi Gresta ne ha scritte un trentina, alcune si trovano ancora in fase embrionale, altre sono già belle e pronte per la bisogna. “Ho scritto dopo i successi e dopo gli esoneri – continua il tecnico marchigiano – oppure ispirandomi al rapporto con i colleghi. Una buona metà delle volte l’ispirazione arriva dal lavoro, però quasi mai ho fatto riferimento al basket, preferisco occuparmi delle emozioni che mi hanno lasciato determinati eventi, incontri o persone. E cerco di tenere il più possibile musica e lavoro separati, festa finale della Vanoli di due anni fa a parte. Ancora mi chiedo se feci bene o no, purtroppo nel mio ambiente ogni cosa può essere vista con ammirazione o sdegno. Un esempio: i giocatori di Team USA, durante una giornata di riposo nell’ultimo mondiale in Spagna, si sono divertiti in svariati modi, alcuni di loro con le moto d’acqua, altri a passeggio in centro. Con il benestare di coach K. Alla fine hanno vinto e quelle ore di relax sono state giudicate quasi all’unanimità come utili per rompere la routine e togliere pressione. Avessero perso, coach K sarebbe stato crocefisso. Per me è la stessa cosa: se la squadra vince la mia passione per la musica diventa motivo di ammirazione (“caspita, che cosa bella fa il coach, ha una passione e per fortuna non pensa solo al basket!”); se perde, invece, succede l’esatto contrario (“ci credo, quello lì pensa a suonare invece che studiare le partite!”). Idem per la canzoni: sono belle o fanno schifo, dipende da cosa succede in campo. Funziona così, c’è ignoranza. Quando alleno, non suono più di un’ora, massimo due ore al giorno, ma non guardo quasi mai la tv. Guardare la tv è normale, non fa scalpore, avere un hobby sì. Per questo cerco di tenere i due mondi distanti, anche se io sono io e non posso improvvisamente diventare un amante di monete perché chi giudica il mio lavoro è fissato per la numismatica!”
Al momento la sola “Ineffabile” si trova in rete, tutto il resto giace nei cassetti di qualche scrivania. Resta da capire se avremo la possibilità di ascoltare qualcosa o se la produzione grestiana finirà come il “Black album” di Prince. “Per un passo del genere devi essere giovane, esperto, musicista e io sono solo un appassionato. Voglio dire: il mio amico Filippo gioca a tennis ma non è Djokovic, io suono e canto ma non sono Mick Jagger. Sforzandomi al massimo, non riuscirei nemmeno ad avvicinarmi a Gigi D’Alessio o a Michele Zarrillo!”.
E pensare che quest’uomo meraviglioso non è ancora sotto contratto. Possibile non ci sia nessuno in giro in grado di offrirglielo? Stiamo parlando di un contratto discografico, si era capito, vero?

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 1 ottobre 2014)

Angelo Baiguera, il playmaker che piaceva a De Andrè

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Angelo Baiguera, attuale consigliere delegato del Palermo Calcio, ha attraversato varie vite. Tra le più importanti, quelle di giocatore di basket dal talento puro e di cantautore di belle speranze che piaceva a Fabrizio De Andrè e a pochi altri.

Ognuno di noi è figlio della propria era. Con tutti gli annessi e connessi del caso. Gli anni ’70, per esempio: se eri ragazzo in quel decennio lì, prima o poi dovevi scegliere se stare di qua o di là. Certo, potevi pur sempre infilarti in un pertugio nel mezzo, volendo persino startene sulle tue e fregartene alla stragrande, ma non sarebbe stata la stessa cosa. E poi non ti saresti divertito, diciamolo. Angelo Baiguera era un figlio degli anni ’70 e a lui il mondo piaceva mancino. Gli indiani metropolitani di Parco Lambro, Julian Beck, Fabrizio De Andrè, Franco Basaglia, Moni Ovadia i suoi esempi, quelli da seguire, senz’altro più influenti di Pierluigi Marzorati o Pete Maravich, per dire. Già, Baiguera, classe 1955, giocava a basket. Un playmaker di quelli forti, una promessa pronta a spaccare il mondo con il solo aiuto di un talento cristallino.
Ma sul parquet non sempre va come deve andare. Le prime avvisaglie quando il nostro compie 16 anni e Cantù gli punta gli occhi addosso: tre mesi di mal di pancia e poi via, verso nuove avventure. La prima a Cremona, da dove se ne esce come miglior marcatore della serie B. Poi la Pintinox Brescia e l’incontro fatale con Yelverton. Baiguera alla chitarra, Charlie al sax, ovvero De Andrè contro John Coltrane: risultati a parte, una stagione da incorniciare. Come quelle che arriveranno da lì a poco. La Ginnastica Triestina, targata Hurlingham, è appena tornata in serie A, Trieste vive il rapporto con la palla a spicchi sulla spinta di una passione viscerale e Baiguera è adorato come un semidio. Ma una volta timbrato il cartellino, l’idolo delle masse se ne scappa all’Opp, l’ospedale psichiatrico, dove passa il resto della giornata e dorme. È uno “strano”, ormai lo hanno inquadrato. I dirigenti e la piazza sopportano a fatica, lui intanto scrive articoli non proprio tranquilli sui giornali locali e butta giù canzoni. Incide un disco, “York nome di Cane”, esce solo a Trieste e vende qualcosa come 10.000 copie, fa tappa a Milano, dove suona spesso e comincia a farsi conoscere, scrive per Pierangelo Bertoli e Charles Aznavour. I problemi si acuiscono, il rendimento sul campo si fa altalenante, l’autoritarismo dei suoi allenatori chiude il cerchio. Nel 1981, a soli 26 anni, mentre il vate Valerio Bianchini lo insegue per portarlo a Roma, Baiguera si ritira: basta con la pallacanestro, la Ricordi lo mette sotto contratto, nel 1983 esce “Blu notte”. Un disco che piace anche a De Andrè – già, uno dei suoi fari – che lo chiama e gli propone di aprire i suoi concerti, quelli del tour di “Creuza de ma”. Potrebbe essere la svolta, tant’è che arrivano altri vinili, ma il successo è di nicchia. Il problema vero, però, è l’industria discografica: le solite insofferenze, la solita esigenza di sentirsi libero. Baiguera dice addio anche alla musica, tornerà a occuparsi di basket nel ruolo di manager della Stefanel Trieste per poi ritrovarsi con lo stesso ruolo nel Palermo Calcio di Maurizio Zamparini, dove tuttora lavora (e resiste…).

Angelo Baiguera, nel suo passato da cantautore, non ha quasi mai affrontato il tema della palla a spicchi. L’eccezione è rappresentata “È proprio lui”, del 1981, una sorta di autobiografia di quegli anni divisi tra l’agonismo del parquet e la ricerca di una esistenza alternativa alla massificazione. La canzone rappresenta la parabola del giocatore che da mito (“Guardatelo che faccia, che tenebroso… guardatelo dal vero, per un suo bacio, un solo sguardo chissà cosa darei”), si trasforma in mela marcia (“Secondo me è proprio spompato, chissà magari è anche malato, attenzione, non ce la fa più. Fa una vita sregolata, mangia, beve e dorme con chi proprio non si sa… È brutto, sembra frocio, altro che soldi per giocare, tante legnate gli darei”). Poco più di tre minuti per condannare un mondo all’interno del quale il giocatore che pensa è senz’altro un sovversivo e, di conseguenza, un pericolo per lo status quo. E se “È proprio lui” è invecchiata dal punto di vista musicale, si può esprimere lo stesso giudizio sulle liriche che la accompagnano? Pensiamoci, se domani tornasse un Baiguera come verrebbe accolto?

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/, 1 settembre 2014)

I Red Hot Chili Peppers e l’apologia di Magic Johnson

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Earvin “Magic” Johnson è stato celebrato dai Red Hot Chili Peppers nel 1989, ai tempi di “Mother’s milk”, il loro quarto album. Con un inno a un uomo dal sorriso contagioso che ha cambiato le coordinate del basket contemporaneo.

In principio fu “Mother’s milk”, anno domini 1989. Il disco che mette insieme per la prima volta Chad Smith, Flea, Anthohy Kiedis e John (Jack se sei Andrea Brizzi) Frusciante. Ovvero la perfetta macchina da guerra grazie alla quale i Red Hot Chili Peppers, a partire dall’epocale “Blood sugar sex magik”, esploderanno con tutto il loro fragore. Ma prima, appunto, c’è “Mother’s milk”, album di un certo successo negli Usa (8000000 copie vendute, numero 52 in quota Billboard) che ha il merito di mettere a fuoco l’estetica dei quattro ragazzotti californiani: crossover a manetta, ritmi ossessivi, funk e rock’n’roll come parabole da lasciare ai posteri. E dodici pezzi incendiari, compreso “Magic Johnson”, dedicato, come si può intuire, al più grande playmaker di tutti i tempi. O almeno sono in molti a pensarla così. Anzi, per dirla tutta, c’è una sparuta ma combattiva minoranza pronta a giurare che colui che indossò la canotta numero 32 dei Los Angeles Lakers tra gli anni ’80 e la prima metà del decennio successivo è stato il più grande di tutti in assoluto. Più di Lui, per dire (come Lui chi?), ma non divaghiamo. E torniamo a bomba sulla quarta traccia di “Mother’s milk”, quasi tre minuti che sembrano (sembrano) lambire il repertorio dei Ramones più giocherelloni. Ma forse, al di là di qualsiasi riferimento si possa tirar fuori, ai RHCP interessava più che altro celebrare le gesta di un campione amato e rispettato da tutti. Larry Bird arrivò a dire: “La prima cosa che facevo ogni mattina era di andare e vedere i boxscore per sapere cosa avesse fatto quella sera Magic. Non riuscivo a pensare a nient’altro”.

Già, Earvin (così fu iscritto all’anagrafe Mr. Johnson da mamma Christine e papà Earvin Sr.) era un’ossessione un po’ per tutti, tranne per una Los Angeles ricopertasi vincente (a parte quei gran pipponi dei Clippers, si capisce). Nel 1989 Magic si era già infilato cinque anelli tra le dita (lo chiamarono Showtime), tre anni più tardi avrebbe completato l’opera con la medaglia d’oro conquistata dal Dream Team ai giochi olimpici di Barcellona. Esatto: quando i Red Hot si decisero a cantare le sue gesta, lui era nel pieno della maturità. Ma stiamo ancora divagando. Ecco, quindi, “Magic Johnson”, apologia del “ragazzone nero venuto per giocare a modo suo”, leader di una squadra con “una voglia di vincere che rimane intatta”. Nell’attacco del brano c’è già tutto: il basket votato all’immaginazione abbinato a una tecnica senza pari, qualità che i gialloviola avrebbero sfruttato fino in fondo. “Penetrando lungo il corridoio di gioco, veloce come un treno, arriva il sangue magico, il cervello telepatico. Quei coglioni farebbero meglio a scansarsi, quando il ragazzone nero avanza come un camion”: come a dire che il ragazzone nero era in grado di spaccare in due le difese avversarie con la sua velocità, la sua materia grigia. E che non ce n’era per nessuno quando partiva con la palla in mano. Già, tutto vero, se solo i Boston Celtics del già menzionato Larry Bird non fossero mai esistiti…
Magic ma non solo. Kiedis e soci trovano il tempo di menzionare altri protagonisti di uno dei migliori periodi della franchigia losangelina, come Byron Scott, che “causa un fallo in area” e poi “rientrando riceve una manata da un uomo di nome A.C. Green”, o James Worthy, che è “fortissimo e con la sua ascia da guerra fa canestro così tua madre ne parlerà”. E non poteva certo mancare una citazione riservata a Kareem Abdul Jabbar, altra icona dell’universo Nba, quello che “siede su un trono non per i record che detiene ma perché è caldo e coraggioso”. Esattamente come i Lakers dell’epoca.
Rimane un dubbio: cosa offrirebbe il testo di “Magic Johnson” se i RHCP lo avessero scritto nel 2014 o giù di lì? Più o meno le stesse cose, forse ci sarebbero stati l’aggiunta di qualche nome sulla lista (tipo Kobe Bryant) e un finale diverso. Che allora recitava “Una superstar di tutti tempi (…) sta arrivando nella tua città e la raderà al suolo: qualcuno vuole Magic Johnson?”. Oggi sarebbe bello suonasse più o meno così: “Fuck off Mr. Sterling, and go to hell!”. E stavolta evitiamo di tradurre.

(Da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 16 maggio 2014)

Claudio Baglioni: Il pivot

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A inizio carriera lo chiamavano Agonia. Facile capire il perché. Eppure Claudio Baglioni merita tutta la nostra attenzione e non solo quella, perché è stato (forse) il primo a dedicare una canzone allo sport più bello del mondo. “Il pivot” uscì nel 1977 ed era contenuto nell’album “Solo”. Ripercorriamone i passi principali.

Un grande interprete della canzone italiana. Anzi, no: uno stracciamaroni di dimensioni cosmiche. Con Claudio Baglioni funziona così, inutile tentare di convergere in una ipotetica via di mezzo. E allora manicheismo a manetta, tifosi del bel canto vs. difensori della purezza del rock’n’roll: una lotta senza fine. Eppure, al di là di come la si pensi, noi che tiriamo avanti a forza di pane, palla a spicchi e poco altro, il grande interprete/stracciamaroni di cui sopra dovremmo come minimo ringraziarlo. Perché Baglioni è stato il primo in Italia (al netto di disattenzioni e/o dimenticanze) a dedicare una canzone al basket. Nel lontano 1977.
Il ’77 e le P38, gli opposti estremismi a minare un Paese devastato dalla violenza. Anno di gran confusione sotto il cielo con una colonna sonora dominata, almeno fino all’esplosione della disco-music, da cantautori tristi e soprattutto impegnati. Eugenio Finardi, Francesco Guccini, Claudio Lolli, consapevolmente o meno, erano i feticci del movimento extraparlamentare di sinistra e quando Claudio Baglioni se ne uscì con “Solo” sembrava si fosse attentato all’ortodossia rivoluzionaria dell’epoca.

L’album, peraltro di buon successo (oltre 700000 copie vendute), conteneva dieci pezzi: sul lato B (c’era ancora il vinile), posizione numero tre, ecco irrompere “Il pivot”. Ode a una pallacanestro che non era più la stessa di prima, quando il centro (il pivot, appunto) si limitava e prendere e dare legnate dall’alto dei suoi due metri e passa. Il tempo avrebbe riservato ai lunghi un ruolo meno statico, Chuck Jura e John Sutter, con la loro pallacanestro all-around, rappresentavano il futuro. Ma Claudio Baglioni da cosa aveva attinto per scrivere “Il pivot”? Non lo sapremo mai, ma il sospetto che la sua fosse una visione ristretta ai playground di periferia è forte. I dubbi sono tanti, a partire dal problematico attacco: “Il pallone mi colpì, d’un tratto mi svegliai dai miei pensieri vuoti” sembra la descrizione di una partitella giocata in parrocchia, con un fesso che pensa agli affaracci suoi mentre compagni e avversari sputano sangue, fino a quando qualcuno pensa di tirargli una risolutoria pallonata in testa. A quel punto salta fuori un omone di due metri (già, il pivot), un po’ imbolsito (ha 38 anni) ma ancora efficace. Il testo prosegue descrivendo l’abbigliamento del poverino e la sua camicia a quadri, il che va a rafforzare l’ipotesi di una partita tra amici, probabilmente tra scapoli e ammogliati, oppure tra neomelodici e anticipatori del movimento grunge. Il pivot e il bell’addormentato nel campetto (si presume un play) giocano nella stessa squadra, si stimano e si cercano ma più che altro finiscono per somigliare ai protagonisti di un film di Ingmar Bergman: “andammo avanti per un po’ senza dirci una parola” è frase di una tristezza unica, evocatrice di mancanza di collaborazione o del fatto che i due si conoscono talmente bene da non aver bisogno di parole. Intanto il pivot segna a tutto spiano (“tre in fila ne azzeccò”) anche se a un certo punto ha bisogno di riposo e quel “poi ci fermammo un poco nel cortile, odor di cena e di tv” indica forse un time-out oppure, più semplicemente, che qualcuno si è rotto di starsela lì a menare e non vede l’ora di mettere qualcosa sotto i denti. Non prima di aver salutato con un’azione da manuale: “con una finta si smarcò, io svelto gli passai (licenza poetica, ndr) e lui schiacciò di forza”. È l’apoteosi. I due archiviano la gara e immaginano, con un’indubbia punta di frustrazione, che sia il pubblico sia lì ad applaudirli: “sotto il cerchio parve quasi di sentir le gradinate che tremavano e gridavano per lui e anch’io battei le mani per quell’ultimo canestro”. Il pivot se ne va, porta via il pallone, che è suo (“il pallone sotto il braccio e se ne andò”) e, chissà, la partita potrebbe essere finita non per sopraggiunta stanchezza ma per colpa di quel lungaccione antipatico scappato via con la palla: figurarsi se poteva lasciarla a qualcuno. Ma vai un po’ a discutere con uno alto due metri! Si tratta comunque un finale degno che però lascia spazio a più di un interrogativo. Tipo: perché non dire qualcosa anche degli avversari? Era un cinque contro cinque o un due contro due a metà campo? Il pivot giocava con la camicia a scacchi per un vezzo o le sue canotte erano sporche?

E la musica? Beh, diciamo che è un po’ lenta, “Il pivot” non è certo un pezzo di quelli tirati, almeno non quanto la pelle dello stesso Baglioni. Che, almeno in questo caso, si rivela uno stracciamaroni di dimensioni cosmiche. Già, la seconda che ho detto.

(da dailybasket.it, 16 aprile 2014)

Emis Killa loves this game

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Emis Killa e la sua “I.L.T.G.”, acronimo di I Love This Game. Quando una finale Nba, quella del 2015, vale un rap.

Chissà chi avrà inventato lo slogan. O claim, che dir si voglia. Quattro paroline una dietro l’altra. Perfette, efficaci, persuasive. Non c’è nemmeno bisogno di tradurre. Chi segue il basket lo sa, “I Love this Game”, già quelle quattro paroline di cui sopra, ce lo ritroviamo in tutte le salse da decenni in tv, in rete, sui giornali: messaggio chiaro, forte, incontrovertibile. Ci piace la spicchia, e questo è quanto. E sappiamo bene che piace anche ai rapper, dal più sfigato al più autorevole, da chi azzanna le classifiche di vendita a chi non va oltre all’autoproduzione casalinga. Emis Killa, pseudonimo di Emiliano Rudolf Giambelli, appartiene alla prima categoria. Rapper di razza, molto amato nell’ambiente hip-hop tricolore, quattro album all’attivo. Più qualche singolo sparso di qua e di là, compreso “I.L.T.G.” (un acronimo comprensibile, n’est pas?), scritto nel 2015 e preso in prestito da Sky come sigla delle finali Nba di quella stagione.
“I.L.T.G.” è come un fiume in piena che tracima senza soluzione di continuità. Il suo testo racchiude la filosofia del rapper di Vimercate: un concentrato di passione, di grinta, di competenza cestistica, di riferimenti alla cultura hip-hop. Senza dimenticare le ardite metafore disseminate tra una frase e l’altra. Come “La vita è come il basket, una questione di palle”. Oppure “Qui ogni giorno è gara 7 e sento la stanchezza”. Che più che metafore, potremmo definirle sentenze. E le sentenze, come in questo caso, sono inappellabili. E non è solo questione di palle o di arrivare a gara 7 con la stanchezza che ti distrugge, sia chiaro. C’è tutto un mondo che gira attorno all’Nba, che va rispettato, rituali compresi. Validi soprattutto di fronte a un televisore al plasma, pop corn in mano e guai a chi rovina lo spettacolo. Un mondo che Emis Killa racchiude in pochi, semplici assiomi: “Non ci sono per nessuno, oggi c’è l’Nba. Un parquet, un canestro e una palla, solo io e lei, blocchi, assist, tiri da tre, fade away, non c’è tempo per pensare, it’s time to play”. Semplice, no?

Poi c’è tutto il resto. All’interno di “I.L.T.G.” si citano Stephen Curry, Phil Jackson, Dick Bavetta, Blake Griffin, Kobe Bryant, Chris Andersen, meglio noto come “Birdman”. E non poteva certo mancare il parallelo tra la dura vita di chi ha abbracciato la cultura dell’hip hop e la pallacanestro. Spiega Mr. Killa: “Partiti dal quartiere parlerete di noi, Bad Boy come nei ’90 Detroit. Odio le cose easy, il nostro motto è play hard, ma le rime le scrivo con gli occhi chiusi lay up (…). Scrivo tante cose hit sopra questi beat, che se fossi un team, mi chiamerei Miami Heat”. Un pizzico di modestia non guasta, ci mancherebbe, ed è sempre meglio ribadire il concetto, che non si sa mai: “Tutti lo sanno, quando parte Killa non lo fermi, l’uomo dell’anno, sono in forma come Stephen Curry, rookie come ‘He got game’, groupie nel mio letto (…). Io e i miei la schiacciamo forte come Lebron James (…). La mia generazione segue le mie orme, e prende le mie forme, bianco e tatuato come Birdman”.
La musica che accompagna le parole di Emis Killa è epica, maestosa, potente, guerriera. Adatta a un testo che non le manda a dire, incaricato di portare il telespettatore di Sky verso la magia delle finali del campionato professionistico nordamericano. A proposito, quell’anno vinsero i Golden State Warriors per 4-2 sui Cleveland Cavaliers. Aveva ragione il buon Emis quando affermava di essere in forma come Stephen Curry. Vuoi vedere che aveva previsto tutto?

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/)

I Dowsing sono qui per parlare di basket. Ma anche no

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I Dowsing e il basket. Un rapporto strano. Eppure la band di Chicago, nel 2013, ha inciso un pezzo dal titolo “Where’re here to basketball”. Un inno alla spicchia? Beh, non proprio…

Questa volta alziamo le mani. Ci arrendiamo, capitoliamo. Si nota quella bandiera bianca che sventola sul ponte? Ebbene, è la nostra. Pick and Rock ha sempre fatto la sua porca figura. Abbiamo analizzato decine di canzoni frantumandole in mille pezzi, scavando, talvolta bene, talvolta un po’ meno bene, tra i loro più reconditi significati: non ci siamo mai fermati davanti a nulla, poco ma sicuro. Ma questa volta come facciamo? Come ve la raccontiamo “Where’re here to basketball” (no, non è un refuso) dei Dowsing? E soprattutto, chi diavolo sono i Dowsing?
Confessiamolo: non ci fosse la rete delle reti, l’interrogativo di cui sopra sarebbe rimasto senza risposta. E andiamo di Wikipedia allora. I Dowsing arrivano da Chicago, Illinois, e suonano un frullato di emo, grunge, punk e indie. Nel Belpaese nessuno (o quasi) se li è mai filati nemmeno per sbaglio, ma negli USA dovrebbero avere un certo seguito – almeno nell’ambito del rock indipendente – se è vero che nel corso degli ultimi cinque anni hanno inciso una bella sfilza tra singoli ed EP oltre a tre album. All’interno della loro seconda fatica discografica, “I don’t even care anymore”, uscito nel 2013, ecco spuntare “Where’re here to basketball”. Bella canzone rotonda e chitarrosa, roba da nerd, roba bella e stilosa però. E sin qui ci siamo. Il problema è il testo. Perché se mi intitoli un brano in quel modo, vuol dire che a un certo punto dovrai per forza di cose parlarmi di schiacciate, assist, buzzer beater, alley-oop, al massimo del tiro libero come metafora della vita o della frustrazione del giocatore scarso costretto dall’allenatore a ripetere la treccia fino allo sfinimento. No, niente di tutto questo.

La storia di “Where’re here to basketball” avrebbe potuto scriverla un Billy Corgan allegro, tanto per dare l’idea. È la descrizione (una delle tante) della generazione X: amore, alcool, mi faccio schifo, no future for you and for me, piove e sono triste. Frasi tipo: “Ti vengono i lividi quando sei maldestro, peggio ancora se sei ubriaco. Potremmo provare a fare un bambino nel soggiorno, ma non credo sia una buona idea: il tappeto è liso, ci sono avanzi di cibo e ho ribaltato gli occhiali”. E questo è niente. “Le mie intenzioni non sono mai state chiare, ho solo voglia di starti vicino ma non c’è da stupirsi se sei confusa dai miei insulti ubriachi. Cerchiamo di non rovinare tutto, ho bisogno di un amico, non di un rapporto, perché io sono il tipo peggiore di persona, quella che butta via le cose belle”. Segue la promessa di andarsene a Seattle “perché qui piove sempre” (a Chicago, si suppone), e “ho bisogno di una spiaggia per tenermi in forma”.
Tutto bellissimo, ci mancherebbe altro, ma che c’azzecca la palla a spicchi? È come se “O sole mio” si intitolasse “It’s raining again”, o “Yesterday” fosse uscita come “Tomorrow”, magari con Amanda Lear ai cori. O forse, e stiamo raschiando il barile, oltre che del mare, chi ha vergato quel testo avrebbe avuto bisogno anche di assistere a una partita dei SuperSonics, salvo poi scoprire che la franchigia che fu territorio incontrastato di Jack Sikma e Gus Williams ha fatto le valigie, trasferendosi, peraltro un bel po’ di anni fa, da Seattle a Oklahoma City. Proprio come quelli che buttano via le cose belle. O forse no, è solo un gioco. O una metafora (un’altra), un modo per ricordare che la vita ti sottopone a prove dure, almeno quanto provare a marcare LeBron James o guardare una partita in tv con il commento di Franco Lauro. Cosa quest’ultima, per la quale abbiamo già alzato le mani tanto ma tanto tempo fa.

(tratto da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/)

Ghemon, Madbuddy, Kiave e Johnny Marsiglia. They love this game

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In quattro è meglio. In quattro si spacca che è una bellezza. E si rappa senza un domani. Come quella volta in cui le strade di Ghemon, Madbuddy, Kiave e Johnny Marsiglia si incrociarono. Per dare vita a “We love this game”.

Di Ghemon, Pick and Rock si era già occupato in tempi non sospetti. Era il 2015 e il giovanotto aveva appena inciso “Vola alto”, singolo scelto come canzone ufficiale del campionato di basket di serie A. E già all’epoca, sapevamo che saremmo tornati sul luogo del delitto. Perché Gianluca Picariello, così è registrato all’anagrafe Ghemon, la sa lunga. Sulla pallacanestro e sull’hip-hop. Che spesso si intersecano tra di loro fino a diventare un unico soggetto. Niente di più facile per uno che, quand’era ancora un pischello, timbrava il cartellino delle squadre di minibasket della Scandone Avellino, per poi continuare a buttare la palla nel cesto a scuola e nelle minors. Il rap alla fine se l’è portato via ma la spicchia è sempre lì in agguato. Come testimonia “We love this game”, uscito nel 2014 come colonna sonora dell’evento “The search of the baddest”.
Attenzione però a non dimenticare tutti gli altri. È vero, Mr. Picariello è lì a sciorinare rime, ma non è il solo: al suo fianco ecco Madbuddy, Kiave e Johnny Marsiglia. Complici di una crew di tutto rispetto per un tributo alla nostra disciplina sportiva preferita.

I quattro si dividono i compiti spezzando il brano in altrettante parti, come in un vero e proprio lavoro di equipe, come quando in attacco la palla circola veloce tanto da mandare fuori dai coppi la difesa avversaria. A partire è Ghemon, per il quale il basket è anzitutto palestra e sudore: “Il coach chiama la treccia a cinque, quelli più scarsi a fare i suicidi (…), la palestra è vuota, se non corri geli, dalla lunetta parli al ferro e lo preghi, oggi è l’ultimo a lasciare il campo come ieri, il primo ad arrivare in fondo come il Beli”. E il Beli, ma che ve lo diciamo a fare, sta per Marco Belinelli, citato da Ghemon assieme a un altro grande del calibro di Sasha Danilovic (“tiro da 4, andate a casa vostra!”). Poi tocca a Madbuddy (al secolo Marco Gorgone), e la sua è una visione più spirituale del basket, se ci si concede il termine: “Parlo con la testa su, aspettando che accada, nel cielo le parole sono come palloni rimasti in aria (…). La tua faccia, la tua verità, sarei quello che serve, ma pure senza gravità rispetterei le regole. Siamo i numeri di spalle in questo campo, tipo chi ti dà le spalle in questo campo. Stanco del passato perché un giorno vale un altro, e se è vero che conta dove stai andando, tu stai andando forte”. E se Kiave (Mirko Filice), dispensa perle di saggezza (“Il fuoriclasse lo distingui dagli assist, la vita serve pochi alley-oop, pure se spacchi vince tutta la squadra, non tu”), Johnny Marsiglia gioca a fare il duro (“Prendo il microfono a metà campo, tu chi sei? Clown! Dov’è la tua corona, re del playground? (…) Nel mio quartiere i ragazzi mi portano rispetto, per come sono e per come rappo, ok? Ogni vittoria è per i miei fratelli”.
“We love this game” è un rap di grande impatto, realizzato con la complicità dei beat di Shocca e dagli scratch di Dj Tsura, sostenuto da un videoclip le cui immagini esaltano i playground e la loro vitalità. Certo, sarebbe stato interessante vedere i quattro interagire tra di loro, ma è probabile che si saranno dati appuntamento per un’altra occasione. O forse si son già rivisti da qualche parte, magari all’interno di un campetto di periferia, rappando tra una partita e l’altra.

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/)

“Nano, hai capito chi siamo”? Quando i Gemelli Diversi affondarono l’Olimpia

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Siamo nella seconda metà degli anni ’00. La vita dei tifosi dell’Olimpia Milano era già difficile. Budget da paura uno dietro l’altro, ma nessun risultato. Eppure c’era di peggio: sopportare “Onore e gloria”, tributo dei Gemelli Diversi alla Scarpette Rosse.

Se un giorno qualcuno si prendesse la briga di stilare una raccolta dei principali crimini del dopoguerra, non saremmo per nulla sorpresi se al suo interno dovessimo trovare un capitolo dedicato ai Gemelli Diversi. Cominciamo così, con una cattiveria gratuita. Ma basta smanettare un po’ in rete per accorgersi di quanto amore/odio giri attorno al gruppo milanese. Tanto per dirne una: un forum specializzato in hip-hop, qualche anno fa, promosse un referendum chiedendo agli internauti quale fossero i rapper che “fanno più cagare” (virgolettato d’obbligo, noi di Pick and Rock abbiamo sempre evitato certi francesismi): ebbene, i Gemelli Diversi vinsero alla grande con una percentuale del 39,02%, roba che il PD, a vederlo com’è messo oggi, se la sogna. Certo, parliamo di un forum, uno dei tanti che affollano la rete, niente di scientifico, per carità. E poi è innegabile che la premiata ditta Strano&Thema abbia scritto canzoni di un certo spessore. Tipo… ehm… sì, un attimo, ecco… ehm… Va bene, ne parliamo la prossima volta.
Ma perché abbiamo convocato tra queste pagine proprio i Gemelli Diversi? Facciamo un passo indietro e torniamo a qualche anno fa, alla seconda metà degli anni ’00 per essere precisi, quando le gerarchie del basket italiano seguivano strane traiettorie. Ricordate? L’Olimpia Milano che spende soldi, tanti soldi. Come sempre, tra l’altro. Lo scudetto manca dal 1996, logico che Re Giorgio (Armani) voglia il meglio per la sua squadra. Ecco allora sbarcare in via Caltanissetta fior fiore di giocatori, tecnici, dirigenti. Certo, ogni tanto bisogna fare i conti con qualche bidone (e a questo punto dovremmo aprire una parentesi che per pietà lasciamo in sospeso, e poi lo spazio che ci mette a disposizione il web non è mica infinito…) ma fa nulla. Ogni anno sembra quello buono, peccato che sin dalla prima curva spunti ogni volta la Montepaschi Siena a fare marameo. Alla faccia di chi, alla vigilia di ogni campionato (ed erano davvero in tanti) piazzava Milano in cima ai pronostici.

Ma l’annus horribilis (in decade malefica) è quello a cavallo tra il 2008 e il 2009. L’Armani Jeans ingaggia un coach rampante come Piero Bucchi, reduce dalle buone cose mostrate a Napoli, e mette insieme un roster, come sempre, di prima fascia: ci sono, lì in mezzo, il giovane Luca Vitali, i muscoli di Mason Rocca, i numeri di David Hawkins, la grinta di Massimo Bulleri, le certezze offerte da Mingaudas Katelynas. Un collettivo forse non spettacolare ma senz’altro concreto, che arriva alla finale playoff. Dove però l’avversario da battere è Siena: 4-0 per la Mens Sana di Simone Pianigiani, terzo scudetto di fila e Milano se ne torna a meditare. Tra la delusione dei suoi supporters. Che in quell’annata non solo sono costretti a sorbirsi una stagione in fin dei conti fallimentare: già, a rendere ancora più difficile la vita del popolo dell’Olimpia ci si mette anche “Onore e gloria”, tributo all’Armani Jeans firmato, e ci siamo finalmente, Gemelli Diversi.

Perché nella vita come nello sport si può sopportare di tutto, anche le sconfitte più pesanti, ma non un pezzo come questo. “Onore e gloria” nasce come atto d’amore nei confronti delle Scarpette Rosse che la band indirizza ai suoi idoli, uno strano concetto d’amore, a dire il vero. In realtà, si tratta di un’accozzaglia di suoni insopportabile (rap? Rap metal? Crossover? Boh…), inutile e dannosa, senza capo né coda. “E pensare che mi lamentavo di Rosita Celentano”: è uno dei commenti più morbidi usciti dal forum dei tifosi del club meneghino. Giudizio ingeneroso: frasi come “Nano, hai capito chi siamo?” o “Praticamente qui chi si affronta lo si stende” avrebbero meritato onore e gloria imperituri.
Alla fine della fiera, il cosiddetto tributo finisce nel dimenticatoio. L’Olimpia dovrà vedersela per ancora qualche anno con lo strapotere di Siena, mentre i Gemelli Diversi incideranno altri dischi. Senza più raggiungere, però, i picchi di “Onore e gloria”. Cosa, peraltro, difficilissima, se non impossibile. Però, a dirla tutta, con un po’ di sforzo magari…

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/)