De Rien: Canzoni profane e d’amor

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Dietro la ragione sociale si muove un duo, costituito da Flavio Fucili e Marco Pesenti. Al loro fianco un gruppo di amici con il compito di regalare sostanza e qualità alle canzoni dei De Rien. Nate e cresciute partendo dal pianoforte, alla ricerca della giusta alchimia tra musica e testi, tra un istinto cantautorale feroce e altre suggestioni che si sono fatte largo senza trovare ostacoli.

“Canzoni profane e d’amor”, secondo la visione dei suoi autori, equivale a otto tele di grandi dimensioni. Scegliere i colori, decidere a quali geometrie affidarsi, non è stato poi così difficile. I De Rien hanno scelto di dipingere storie intrise di malinconia, di sogni, di amore e sentimenti, di romanticismo, di vita, di destini allo sbando, tra ululati alla luna e mucchi di parole in costante agguato. Il percorso seguito è quello della canzone d’autore, ma c’è stato il tempo per percorrere altre strade. Che hanno contaminato le otto canzoni dell’album: riferimento non casuale agli accenni rap di “Semplice”, alla tromba davisiana di “Se fosse diverso”, al tango di “De pe a pa”, senza dimenticare il sapore di Francia che spunta qua e là e qualche spruzzata di elettronica a condensare il tutto. La voce di Marco Pesenti, un ibrido tra Fabrizio De Andrè e Mario Castelnuovo, guida con fare sicuro, la poesia dei testi regala emozioni e piccoli brividi (“Desideri in ostaggio di un domani, come gli occhi di un Modigliani”: bello, no?).

Un esordio positivo e centrato, anche se non sempre gli arrangiamenti sembrano tenere il passo. Ma va bene così, almeno per il momento.

(da rockit.it 6 gennaio 2020)

Sensei Crew, rap e basket stanno bene insieme

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Una crew. Una sfida: calcio contro basket. E hip-hop contro tutti. Il basket secondo la Sensei Crew.

Una crew. Ovvero un collettivo, una cooperativa sociale, un’addizione senza la necessità della prova del nove. Nel caso della Sensei Crew aggiungiamo il termine, desueto ma pur sempre efficace, di supergruppo. Nato dal legame di sangue tra alcuni dei nomi più importanti della scena hip hop sarda. Eccoli lì, tutti insieme, a fatturare rime senza soluzione di continuità: gli m.c. Giocca e Vlade, il beat maker Mr. Nobody. E poi l’illustratore Antonello Becciu, uno che ci dà di spray, e il dj Frankie Krueger a distribuire a piene mani un bel tot di scratch. Rap a go-go, condensato in due album, “Sensei”, dato alle stampe nel 2013, e “Sensei 2”, uscito cinque anni più tardi. Certo, per quel che riguarda i titoli dei dischi, ci vorrebbe un po’ più di fantasia, ma son particolari di poco conto. La sostanza dice altro. E conferma, tra le tante cose da confermare, che rap e pallacanestro stanno bene insieme. In “Sensei”, per esempio, spicca un pezzo che si chiama “Basket”. E non può essere un caso.
“Basket” se lo dividono Giocca e Vlade su di un tappeto musicale di chiara ispirazione funky. Il testo viaggia su coordinate già conosciute e percorse da altri rapper: si chiamano in causa vecchie conoscenze della NBA come l’immancabile Michael Jordan, i sempiterni Larry Bird, Dennis Rodman, Kobe Bryant e Lebron James, all’appello non mancano nemmeno la tecnica cestistica e qualche schema di contorno, richiamati sin dalle prime battute del brano (“Io gioco a basketball, pallacanestro, alley-oop, pick and roll, gioco spalle a canestro”, attacca Giocca).

Qualcosa cambia nel momento in cui si comincia a parlare anche di calcio e di calciatori, e non certo per esaltare lo sport della pedata: lo scopo è quello di lanciare una sfida, di far capire al mondo, o giù di lì, qual è lo sport più bello del mondo. Una sorta di dissing, inaugurato dalle parole scandite da Giocca: “Mi dicevano: gaggio (termine sassarese con il quale si indica una persona stupida, che non sa comportarsi, nda), tu non giochi a calcio, rispondevo gaggio tu e Roberto Baggio, io mi alleno finché schiaccio, dammi un bacio sopra il culo se così non è per te. Non c’è niente come il gol, certo c’è il tiro da tre fratè. E non puoi certo compararlo, il basket è più figo sia a guardarlo che a giocarlo: praticalo come il rap e saprai volare (…). È il gioco più spettacolare, faccio ciuff, allungo il braccio e spezzo il polso”.
A Vlade (un nickname, chissà, ispirato a Vlade Divac) non rimane altro che incalzare e ribadire il concetto: “(Il basket) è un gioco di squadra, guarda e impara, passa la palla oppure nada. Il tuo quintetto di fighetti… sembran calciatori, attori, tronisti, simulatori. Noi guerrieri sul campo come Golden State contro le tue fake, blocchi di cemento, muratori”. Chiaro che alla fine a vincere è il basket, chi vuoi che se ne importi del calcio? E non poteva essere altrimenti quando a tirare le fila del discorso c’è la Sensei Crew. E il loro non è solo un discorso di spettacolarità, di emozioni, di uno scontro titanico tra fighetti e muratori che edificano blocchi di cemento. In fondo, è merito della cultura hip-hop, di come si fa ciuff rappando frasi una dopo l’altra. Una filosofia ben riassunta tra le parole di “Basket”: “Sul campo come sul palco puoi tentare di stopparci ma saltiamo più in alto, fammi un assist che la schiaccio come il basket, nient’altro”. Sì, perché non ammetterlo? Basket e rap stanno bene insieme.

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 6 gennaio 2020)

La Tosse Grassa: Ciao Darwin

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“Ciao Darwin” ce lo meritiamo. Ci meritiamo la tv spazzatura, la politica spazzatura, il cibo spazzatura. La spazzatura in genere, ecco. Per non parlare del populismo, della rabbia in libera uscita dai social, dei “Io sono Giorgia, sono una donna…” eccetera eccetera. D’altra parte, l’Italia è un Paese meraviglioso e il resto del mondo invidia il nostro stile di vita.

“Ciao Darwin” è anche il titolo dell’ultima fatica di Vanni Fabbri, meglio conosciuto come La Tosse Grassa, giunto in dirittura d’arrivo dopo l’esalogia dedicata ai Telegiornali nazionali (dal Tg1 a Studio Aperto, stranamente manca il Tg7) e un live. Un album che è lì a ribadire il concetto di cui sopra: l’Italia è meravigliosa, discendiamo dagli antichi romani e affondiamo le nostre radici nella tradizione cristiana. Ci dispiace per tutti gli altri, che al massimo potranno continuare a invidiarci con comodo, senza fretta alcuna. Un Paese, il nostro, nel quale la vecchia e piccola borghesia si è ritagliata un ruolo decisivo e sempre più aggressivo: La Tosse Grassa lo ha capito da tempo e anche in questa occasione non ha esitato un attimo a reinterpretare come un mantra le sue parole d’ordine. “Dio sei pace, Dio sei amore, scaccia via i pensieri brutti, gli africani sui barconi devono morire tutti”, canta in “Ave Sharja” (c’è anche la voce di Daniele Delogu della Barbarian Pipe Band). E in “Piazza Traini” (ricordate tutti chi è Luca Traini, vero?) immagina un futuro distopico: è il 2050, la guerra non c’è più, Diego Fusaro è al terzo mandato come presidente del consiglio, la gente si ammassa sulla spiaggia di Corridonia (cittadina nei pressi di Macerata che, al momento, dista circa 30 chilometri dal mare…) ed è felice perché in giro non ci sono più negri e nemmeno un marocchino che è uno. È la pacificazione, il trionfo della razza caucasica, della superiorità dell’uomo bianco. Che potrà continuare a vivere tra i suoi inni a Satana, la paura dell’Aids, il karaoke, il degrado, la messa la domenica, le mignotte, la depressione, l’amore eterno ma non troppo, la morte che viene da Orte, la cocaina. Già, uno stile di vita che il mondo ci invidia.

Anche in “Ciao Darwin”, il musicista marchigiano è spietato e sprezzante. Bestemmia, rutta, si prende gioco di preti, benpensanti e farisei di ogni ordine e grado. E, come d’abitudine, associa i suoi testi deliranti al solito, geniale copia e incolla, al mash up più selvaggio, seguendo il consolidato metodo della contraffattura, ovvero costruire canzoni rubando campioni da brani altrui. Tra le dodici canzoni del disco, la Tosse Grassa è riuscito a far convivere “Ramaya” e gli XTC, “I Watussi” e i Theater of hate, gli Einstürzende Neubauten e gli 883. Alternando suoni un po’ cupi, soprattutto in apertura dell’album, ad altri ben più martellanti se non (ehm…) romantici, riferimento non casuale ad “Amore perno”. E in “Chi cerca droga”, il pezzo che Mahamood (non) avrebbe (mai) voluto scrivere, è riuscito anche a reinventarsi trapper. Tanto per dimostrare di essere al passo con i tempi. Tempi in cui c’è bisogno del furore techno-punk della Tosse Grassa.

(da rockit.it, 18 dicembre 2019)

Il brodo indigesto degli Skiantos

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Freak Antoni e Nino Pellacani, nei rispettivi ruoli di competenza, amavano il basket. Il brodo invece no, quello andava di traverso a entrambi…

Roberto “Freak” Antoni e Nino Pellacani. Profeta del rock demenziale il primo, nonché guida spirituale dei seminali Skiantos, anima trasgressiva del ’77 bolognese e autore di aforismi scolpiti nella roccia (avete presente il detto “La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo”? Già, è suo). Pivottone roccioso dalla grinta non comune l’altro, oltre che bandiera della Fortitudo Bologna degli anni ’80, alle spalle una vita a sgomitare sotto i tabelloni e uno scudetto vinto a Treviso nel 1992. Due storie apparentemente distanti le loro ma accomunate da una stessa passione: quella per il basket.
Freak era un tifoso della F, secondo alcune fonti in modo sfegatato, secondo altre in maniera compassata. Fatto sta che, nel 2002, prima di uno dei tanti derby con la Virtus, gli Skiantos si trovano fuori dal palasport di Casalecchio di Reno per improvvisare un concerto e il loro leader indossa una t-shirt con la scritta “Odio il brodo” bene in evidenza. Uno slogan farina del sacco del già citato Pellacani, coniato anni prima, non appena il marchio Knorr finisce sulle canotte delle V nere. Un abbinamento che copre gli anni tra il 1988 e il 1993 (per onor di cronaca, la multinazionale tedesca sponsorizzò la Virtus anche tra il 1962 e il 1965), un quinquennio fortunato per la squadra allora guidata del rampante Ettore Messina, succeduto nel 1989 a Bob Hill. In quel lustro, i virtussini chiudono in bacheca due Coppa Italia, una Coppa delle Coppe e il primo di tre scudetti consecutivi. Certo, nulla a che vedere con il Grande Slam del 2001, ma intanto l’altra parte di Bologna rosica non poco.

Freak Antoni adotta la maglietta anti-Virtus già a partire dai tour degli Skiantos di fine anni ’80, alternandola ad altre non meno feroci o grottesche, come “Jovanotti for deficient” o “Sesso orale? Parliamone”. Chi la legge e non è ferrato di palla a spicchi non capisce e si limita a collegamenti arditi con la canzone “Eptadone” (nel cui testo appare il tormentone “le massaie fan la coda per comprare la mia broda”) oppure con la copertina del singolo “Fagioli”. Ma per ascoltare una canzone che richiami esplicitamente Nino Pellacani e le sue tre paroline magiche bisognerà aspettare anni, molti anni.
È il 2009 quando esce “Dio ci deve delle spiegazioni”, quello che rimarrà, purtroppo, l’ultimo album in studio degli Skiantos. La premiata ditta Freak Antoni/Dandy Bestia sfodera un lavoro che richiama le origini della band: il suono è rozzo, grezzo e volgare, inserito tra asperità punk e frequenti puntate hard. La traccia numero nove si intitola “Odio il brodo” e il cerchio si chiude.
È un pezzo bello carico che, forte delle sue velleità post-demenziali, si scaglia contro le complicazioni della vita, il lavoro, la depressione e non risparmia frecciate ad altri nemici giurati dell’umanità come l’alito cattivo e la lana ruvida. E il basket? E la Virtus? Li troviamo coinvolti nell’attacco, quando la voce sgraziata di Freak urla la sua rabbia nei confronti del “nodo quando si scioglie, (del)la squadra ricca quando stravince”. Segnale che il testo del brano è stato scritto anni prima, quando le V Nere vincevano davvero e dall’altra parte si collezionavano dieci finali playoff in undici stagioni perdendone otto, con il “tiro da quattro” di Sasha Danilovic simbolo e madre di tutte le sconfitte fortitudine. E soprattutto, quando “Dio ci deve delle spiegazioni” esce nei negozi di dischi, la Fortitudo è all’ultima apparizione in serie A, da parte sua la Virtus vi è rientrata da appena tre stagioni. Già, Basket City, in quel momento, è un pallido ricordo.

Freak Antoni lascia la nostra valle di lacrime lo scorso 12 febbraio. E nella camera ardente allestita a Palazzo d’Accursio di Bologna, a un certo punto spunta una palla a spicchi arricchita dalla firma dei giocatori della Fortitudo. Manca quella di Nino Pellacani, che nel frattempo è diventato uno stimato grafico pubblicitario. Ma è come se fosse stata lì, assieme a tutte le altre.

Gigio Gresta, l’ineffabile

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Allenatore e musicista. Pick and Rock ospita Gigio Gresta, coach dalla vena cantautorale che quando ha qualcosa da dire… canta!

Le polemiche fioccano come le nespole. E se sei un fan dell’immenso Aldo Biscardi sai bene cosa significa. Sai che più di una frase a effetto si tratta di un dogma, di un assioma, di un principio fondamentale, di una verità rivelata, di una certezza. Perché la polemica è il sale della vita, perché tira più un pelo di polemica che un carro di buoi. Nemmeno noi iscritti al club della palla a spicchi potremmo mai farne a meno e se solo avessimo la possibilità di stilare l’elenco di tutte le discussioni animate che si sono succedute dai tempi di Nino Calebotta ai giorni nostri, non la finiremmo più. Perché anche tra le nostre lande si litiga, si fa la voce grossa, ci si scambia gelati al veleno. E ognuno reagisce come può: replicando a brutto muso, restando indifferente, oppure scrivendo una canzone. Già, c’è pure chi se la cava in questo modo qua.
Ma riavvolgiamo il nastro e facciamo mente locale. Campionato di serie A 2012/2013, la Vanoli perde, di brutto, in casa con Milano: è la sesta sconfitta in otto partite. Attilio Caja è esonerato, il club di piazzale Lanzini decide di sostituirlo con l’assistente Luigi “Gigio” Gresta. E sin qui nulla di strano, tranne per un particolare: Caja se ne va su Sky Sport e attacca a testa bassa, in primis la società che lo ha scaricato poi il suo ex vice: “L’acquisto più inutile è stato quello di Gresta. L’ineffabile Gresta”. La replica dell’interessato è soft ma non troppo: “Non mi aspettavo queste parole perché nel lavoro quotidiano ho avuto completa fedeltà. Siamo persone diverse, se lui la pensa così continuerò a stimarlo solo come tecnico”. Risposta dal retrogusto acido, ma è solo la prova generale di quello che accadrà da lì a poco.
Per farla breve: Gresta vince undici delle ventidue partite che rimangono da giocare e Cremona rimane in massima serie. Una salvezza da festeggiare come si deve. 8 maggio 2013, dirigenza, squadra e staff si danno appuntamento all’Agriturismo del Cortese di Soncino: si mangia, si beve, si suona e si canta con i “Pooi”, band estemporanea con il Gigio alla voce. L’ultima canzone in scaletta si intitola “Ineffabile” (sotto il video pubblicato su La Provincia di Cremona), indovinate di cosa parla e a chi è dedicata. “Guardami negli occhi, sono l’ineffabile, puoi salutarmi tanto non mi sento inutile. Non voglio più lacrime nel mio giardino ma il mio sorriso da condividere con voi”. Il succo del testo è tutto in queste poche parole: la replica definitiva a Caja.

Quella sera tutti scoprono l’alter ego del Gresta coach, uno che lavora in palestra e poi, finiti i compiti a casa, scrive canzoni. Gigio è di Pesaro, lì di basket e musica si mastica da una vita. Lui suona chitarra e tastiera sin da ragazzino, un giorno fa un provino per entrare in un gruppo ma pochi minuti prima aveva finito di allenare e al momento di avvicinarsi al microfono scopre di non avere più voce! Buon per lui, anche se la passione per la musica non scema, anzi. “Se sono in auto, o a passeggio – confida a DailyBasket – e mi viene in mente una melodia prendo l’Iphone e la registro con il classico ‘nanananana’, come quando si canticchia una canzone della quale si ignora il testo. Il mio telefonino è pieno di ‘nanananana’, spero che nessuno se ne impossessi o lo sputtanamento sarebbe immediato! Poi, una volta a casa, mi metto al piano o prendo la chitarra e traduco il ‘nanana’ in accordi e note. Quando il tutto prende corpo metto giù le parole, per le quali, però, ci vuole l’ispirazione, qualcosa che le possa spingere, farle uscire fuori. Per una delle ultime mie creazioni, ‘Passeggiata in centro‘, mi è capitato di scegliere parole e musica contemporaneamente.
La scrissi all’indomani del mio esonero da Cremona. Non ero mai salito sul Torrazzo, la splendida torre campanaria. del Duomo. Era un nebbioso pomeriggio di dicembre, uscii di casa con la chitarra e salii i tanti gradini, una volta in cima (ero solo, quindi nessuno poteva prendermi per pazzo), cominciai a scrivere e suonare. L’atmosfera era stranissima e malinconica, si percepiva il suono dei violini dei tanti liutai della città. Una volta a casa la suonai con il pianoforte, lo strumento più adeguato a esprimere la mia tristezza. La cosa buffa fu che, attraverso Facebook, un amico-tifoso cremonese, Gabriele, contribuì ad aggiustare il testo. Fu divertente”.

Di pezzi Gresta ne ha scritte un trentina, alcune si trovano ancora in fase embrionale, altre sono già belle e pronte per la bisogna. “Ho scritto dopo i successi e dopo gli esoneri – continua il tecnico marchigiano – oppure ispirandomi al rapporto con i colleghi. Una buona metà delle volte l’ispirazione arriva dal lavoro, però quasi mai ho fatto riferimento al basket, preferisco occuparmi delle emozioni che mi hanno lasciato determinati eventi, incontri o persone. E cerco di tenere il più possibile musica e lavoro separati, festa finale della Vanoli di due anni fa a parte. Ancora mi chiedo se feci bene o no, purtroppo nel mio ambiente ogni cosa può essere vista con ammirazione o sdegno. Un esempio: i giocatori di Team USA, durante una giornata di riposo nell’ultimo mondiale in Spagna, si sono divertiti in svariati modi, alcuni di loro con le moto d’acqua, altri a passeggio in centro. Con il benestare di coach K. Alla fine hanno vinto e quelle ore di relax sono state giudicate quasi all’unanimità come utili per rompere la routine e togliere pressione. Avessero perso, coach K sarebbe stato crocefisso. Per me è la stessa cosa: se la squadra vince la mia passione per la musica diventa motivo di ammirazione (“caspita, che cosa bella fa il coach, ha una passione e per fortuna non pensa solo al basket!”); se perde, invece, succede l’esatto contrario (“ci credo, quello lì pensa a suonare invece che studiare le partite!”). Idem per la canzoni: sono belle o fanno schifo, dipende da cosa succede in campo. Funziona così, c’è ignoranza. Quando alleno, non suono più di un’ora, massimo due ore al giorno, ma non guardo quasi mai la tv. Guardare la tv è normale, non fa scalpore, avere un hobby sì. Per questo cerco di tenere i due mondi distanti, anche se io sono io e non posso improvvisamente diventare un amante di monete perché chi giudica il mio lavoro è fissato per la numismatica!”
Al momento la sola “Ineffabile” si trova in rete, tutto il resto giace nei cassetti di qualche scrivania. Resta da capire se avremo la possibilità di ascoltare qualcosa o se la produzione grestiana finirà come il “Black album” di Prince. “Per un passo del genere devi essere giovane, esperto, musicista e io sono solo un appassionato. Voglio dire: il mio amico Filippo gioca a tennis ma non è Djokovic, io suono e canto ma non sono Mick Jagger. Sforzandomi al massimo, non riuscirei nemmeno ad avvicinarmi a Gigi D’Alessio o a Michele Zarrillo!”.
E pensare che quest’uomo meraviglioso non è ancora sotto contratto. Possibile non ci sia nessuno in giro in grado di offrirglielo? Stiamo parlando di un contratto discografico, si era capito, vero?

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 1 ottobre 2014)

Angelo Baiguera, il playmaker che piaceva a De Andrè

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Angelo Baiguera, attuale consigliere delegato del Palermo Calcio, ha attraversato varie vite. Tra le più importanti, quelle di giocatore di basket dal talento puro e di cantautore di belle speranze che piaceva a Fabrizio De Andrè e a pochi altri.

Ognuno di noi è figlio della propria era. Con tutti gli annessi e connessi del caso. Gli anni ’70, per esempio: se eri ragazzo in quel decennio lì, prima o poi dovevi scegliere se stare di qua o di là. Certo, potevi pur sempre infilarti in un pertugio nel mezzo, volendo persino startene sulle tue e fregartene alla stragrande, ma non sarebbe stata la stessa cosa. E poi non ti saresti divertito, diciamolo. Angelo Baiguera era un figlio degli anni ’70 e a lui il mondo piaceva mancino. Gli indiani metropolitani di Parco Lambro, Julian Beck, Fabrizio De Andrè, Franco Basaglia, Moni Ovadia i suoi esempi, quelli da seguire, senz’altro più influenti di Pierluigi Marzorati o Pete Maravich, per dire. Già, Baiguera, classe 1955, giocava a basket. Un playmaker di quelli forti, una promessa pronta a spaccare il mondo con il solo aiuto di un talento cristallino.
Ma sul parquet non sempre va come deve andare. Le prime avvisaglie quando il nostro compie 16 anni e Cantù gli punta gli occhi addosso: tre mesi di mal di pancia e poi via, verso nuove avventure. La prima a Cremona, da dove se ne esce come miglior marcatore della serie B. Poi la Pintinox Brescia e l’incontro fatale con Yelverton. Baiguera alla chitarra, Charlie al sax, ovvero De Andrè contro John Coltrane: risultati a parte, una stagione da incorniciare. Come quelle che arriveranno da lì a poco. La Ginnastica Triestina, targata Hurlingham, è appena tornata in serie A, Trieste vive il rapporto con la palla a spicchi sulla spinta di una passione viscerale e Baiguera è adorato come un semidio. Ma una volta timbrato il cartellino, l’idolo delle masse se ne scappa all’Opp, l’ospedale psichiatrico, dove passa il resto della giornata e dorme. È uno “strano”, ormai lo hanno inquadrato. I dirigenti e la piazza sopportano a fatica, lui intanto scrive articoli non proprio tranquilli sui giornali locali e butta giù canzoni. Incide un disco, “York nome di Cane”, esce solo a Trieste e vende qualcosa come 10.000 copie, fa tappa a Milano, dove suona spesso e comincia a farsi conoscere, scrive per Pierangelo Bertoli e Charles Aznavour. I problemi si acuiscono, il rendimento sul campo si fa altalenante, l’autoritarismo dei suoi allenatori chiude il cerchio. Nel 1981, a soli 26 anni, mentre il vate Valerio Bianchini lo insegue per portarlo a Roma, Baiguera si ritira: basta con la pallacanestro, la Ricordi lo mette sotto contratto, nel 1983 esce “Blu notte”. Un disco che piace anche a De Andrè – già, uno dei suoi fari – che lo chiama e gli propone di aprire i suoi concerti, quelli del tour di “Creuza de ma”. Potrebbe essere la svolta, tant’è che arrivano altri vinili, ma il successo è di nicchia. Il problema vero, però, è l’industria discografica: le solite insofferenze, la solita esigenza di sentirsi libero. Baiguera dice addio anche alla musica, tornerà a occuparsi di basket nel ruolo di manager della Stefanel Trieste per poi ritrovarsi con lo stesso ruolo nel Palermo Calcio di Maurizio Zamparini, dove tuttora lavora (e resiste…).

Angelo Baiguera, nel suo passato da cantautore, non ha quasi mai affrontato il tema della palla a spicchi. L’eccezione è rappresentata “È proprio lui”, del 1981, una sorta di autobiografia di quegli anni divisi tra l’agonismo del parquet e la ricerca di una esistenza alternativa alla massificazione. La canzone rappresenta la parabola del giocatore che da mito (“Guardatelo che faccia, che tenebroso… guardatelo dal vero, per un suo bacio, un solo sguardo chissà cosa darei”), si trasforma in mela marcia (“Secondo me è proprio spompato, chissà magari è anche malato, attenzione, non ce la fa più. Fa una vita sregolata, mangia, beve e dorme con chi proprio non si sa… È brutto, sembra frocio, altro che soldi per giocare, tante legnate gli darei”). Poco più di tre minuti per condannare un mondo all’interno del quale il giocatore che pensa è senz’altro un sovversivo e, di conseguenza, un pericolo per lo status quo. E se “È proprio lui” è invecchiata dal punto di vista musicale, si può esprimere lo stesso giudizio sulle liriche che la accompagnano? Pensiamoci, se domani tornasse un Baiguera come verrebbe accolto?

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/, 1 settembre 2014)

“La razza eletta”, ovvero i Karamamma e Michael Jordan contro gli skinhead

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I Karamamma passarono come meteore nel mezzo del sottobosco indie-rock italiano. E tra quelle poche cose che si ricordano di loro c’è “La razza eletta”, canzone contro il razzismo che tira in ballo anche un certo Michael Jordan.

Oggi “Pick and Rock” non ve la mena con la solita band riempistadi o con cantautori in grado di scalare le classifiche di vendita dall’alto della loro tristezza infinita. A dirla tutta, questa volta non avremo nemmeno a che fare con una canzone espressamente dedicata alla palla a spicchi e ai suoi derivati. E allora? Allora calma e gesso e appuntiamo sul taccuino il seguente nome: Karamamma. Che ai più dirà poco o nulla, eppure c’è davvero qualcuno che ha provato a cavalcare l’onda (più o meno) lunga dell’indie-rock tricolore con tale ragione sociale.
Era il 1994, l’industria discografica non era stata ancora azzannata da Napster o dal Mulo e c’era gente che (udite udite…) i dischi li comprava davvero. Chi faceva la fila per accattarsi “Grace”, l’esordio di Jeff Buckley, chi per inserire nel lettore “Mellow Gold” di Beck o “American Recordings” di Johnny Cash. La scena alternativa nostrana, invece, si alimentava a forza di bocconi di Csi (“Ko de Mondo”) e Modena City Ramblers (“Riportando tutto a casa”): un mercato in salute, con fanzine ed etichette discografiche pronte a spuntare dal nulla. Tipo la napoletana Crime Squad, nel cui bouquet comparivano nomi importanti, la 99 Posse e i Bisca su tutti. Ma anche outsider assoluti come, appunto, i torinesi Karamamma. Che in quel 1994 diedero alle stampe “Siamo tanti”, il loro secondo album, un godibile concentrato di funk e rock. Tra i quindici pezzi in scaletta, ce n’era uno dal titolo “La razza eletta”. Un brano semplice, arricchito da un testo di poche parole dedicato a quei rissosi, irascibili ma in fondo (molto, ma molto in fondo) simpatici skinhead. Ecco cosa si cantava all’interno di quei due minuti e mezzo: “Hai mai provato a giocare a basket contro Michael Jordan? Hai mai provato a mandare affanculo uno come Tyson? Hai mai provato a scappare se c’è Carl Lewis che ti rincorre? Hai mai provato a suonare la chitarra come Jimi Hendrix? Mio piccolo skinhead, qual è la razza eletta?”. Un inno alla negritudine, contro il razzismo e i razzisti, un messaggio che veicola grazie anche a uno come Michael Jordan. In quel periodo è talmente famoso che anche chi non aveva mai visto una partita di pallacanestro in vita sua non poteva non sapere che quel nome e quel cognome indicavano (indicano) uno dei più grandi atleti di sempre, un autentico monumento del basket mondiale.

I Karamamma non ottennero il successo sperato, vivacchiarono fino a inizio nuovo secolo, quando se ne persero le tracce. Ma “La razza eletta”, canzone che fu anche inserita in una compilation pubblicata dal mensile “Rumore”, ha avuto l’indubbio merito di amalgamare, come filosofia del collettivo piemontese imponeva, le lotte per l’eguaglianza con le principali icone del mondo dello sport professionistico e del rock (già, Jimi Hendrix non correva, non schiacciava e non dava pugni…). Un mix tra alto e basso se vogliamo (a voi stabilire cosa sta in alto e cosa in basso), comunque sia un esperimento superato a pieni voti, che avrebbe meritato maggior fortuna. Però… Già, un però pesa persino in una storia come questa. Eccolo: Jordan aveva lasciato l’Nba per farsi largo nell’universo del baseball e nel 1994, eccolo riappropriarsi della canotta numero 23 dei Chicago Bulls, proprio mentre dall’altra parte del mondo un gruppo di sciamannati di stanza a Torino spiegava che lui è uno dei più grandi di tutti, più forte dei razzisti e delle teste pelate (ehm…). Solo una coincidenza? Non è che Mr. Air, una volta ascoltata la canzone dalle antenne della sua campus radio preferita, si sarà messo a pensare una cosa del genere: “Ma cosa ci faccio con una mazza da baseball tra le mani, non è che deludo quei ragazzi? Ma fammi un po’ andare a vedere cosa combinano Scottie e Dennis”. Chissà, potrebbe essere andata così, d’altra parte nessuno lo ha mai interpellato in merito…

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 15 giugno 2014)

Re-Azione: Stand by

A volte è lecito chiedersi perché certi gruppi, sia pur dopo svariati demo non solo di valore, ma anche di un certo successo, e una inesauribile attività live, fatichino ancora a trovare un contratto discografico degno di tale nome. Interrogativo che rimbalza come un macigno sui Re-azione, giunti al loro decimo anno di vita e reduci dal loro sesto demo, il terzo su cd. La band marchigiana, per giunta, arriva a questo doppio appuntamento con una bella novità: l’arrivo del chitarrista Fulvio Ilari, eroe della scena punk italiana di fine anni ’80 con i Lonely Boys (qualcuno li ricorda a Torino, finali Indipendenti ’87?). La sua presenza assicura ai Re-azione non solo esperienza, ma anche (soprattutto?) una buona dose di potenza che forse in passato latitava. Ed eccolo qui “Stand-by”. Otto pezzi suggestivi, grintosi, tra intermittenze indie-rock e Afterhours, con un pizzico di Clash (quelli di “London calling”). Puro e semplice rock & roll, costruito non solo sulla potenza della chitarra di Fulvio: a rendere il lavoro convincente ci sono anche la voce di Luigi Gattafoni, che cura anche i testi, e l’intelligente uso delle tastiere, mai invadenti e sempre al posto giusto. Ne esce fuori un prodotto convincente, che diverte e lascia pensare. Le liriche, molto efficaci e sferzanti, colpiscono soprattutto quando vanno a parare dalle parti dei massimi sistemi: “Facile preda” è dedicata al più invadente dei mass-media, la televisione, mentre “L’uomo forte” sembra una dedica, per nulla benevola, ad un uomo politico italiano piccolo, pelato e piduista. Alla fine viene da chiedersi quanto tempo ancora dovranno aspettare i Re-azione per trovare il modo di uscire dall’angusto ghetto della loro “marchigianità” e superare il loro – per ora – eterno stand-by.

(da rockit.it, 4 aprile 2001)

deLorenzo: deLorenzo

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Dal cuoio capelluto di Corrado De Lorenzo, per brevità chiamato deLorenzo, spunta qualche filo imbiancato. Ci sta a cinquant’anni e passa di età. Anche se la questione potrebbe essere non solo anagrafica: vogliamo mettere lo stress? Come quello accumulato ai tempi del primo EP da solista, attraversati da più di un conflitto con il relativo produttore. Niente di che, per carità, solo qualche divergenza di vedute, ma chissà quanta neve si sarà accumulata lassù in quei momenti così difficili…

A due anni di distanza è cambiato tutto. Da un EP di quattro brani, il cantautore comasco ha deciso di cimentarsi con la lunga distanza e, inevitabilmente, si è messo alla caccia di un nuovo complice. La scelta è caduta su Riccardo Parravicini, un nome, una garanzia. Certificata da un curriculum di tutto rispetto, tra le cui pagine compaiono nomi di primo piano come quelli di Denovo, Niccolò Fabi, Max Gazzè. In “deLorenzo”, la mano di Parravicini si sente (anche il suo vissuto di produttore si sente), il lavoro in sala di registrazione, quasi tutto segmentato in presa diretta, è andato via liscio, qualche calice di vino ha riscaldato l’ambiente e il cerchio si è chiuso all’insegna della serenità.

deLorenzo ha messo insieme nove canzoni non troppo complicate, per lo più leggere, edificate in gran parte su arrangiamenti acustici, all’insegna della sottrazione. Il suo è un pop piacevole, che a volte sfocia in sonorità brit-pop, con la complicità di timide tracce di blues e accenni beatlesiani (“In ogni pelle bianca”), di archi mai invadenti, ben inseriti nel contesto. Alcuni pezzi farebbero la loro porca figura all’interno di una qualsiasi heavy rotation radiofonica (la movimentata “Come Gregor Samsa”, oppure “Le parole non dette”), i testi si fanno rispettare e vanno a parare dalle parti dei risvolti psicologici tra giovani uomini e giovani donne, con tanto di accenni autobiografici inclusi nel prezzo, di vita, di musica. Nel complesso, un disco piacevole e decisamente ben suonato, che non restituirà il colore naturale dei capelli al suo autore, ma non mancherà di strappargli più di un sorriso.

I Red Hot Chili Peppers e l’apologia di Magic Johnson

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Earvin “Magic” Johnson è stato celebrato dai Red Hot Chili Peppers nel 1989, ai tempi di “Mother’s milk”, il loro quarto album. Con un inno a un uomo dal sorriso contagioso che ha cambiato le coordinate del basket contemporaneo.

In principio fu “Mother’s milk”, anno domini 1989. Il disco che mette insieme per la prima volta Chad Smith, Flea, Anthohy Kiedis e John (Jack se sei Andrea Brizzi) Frusciante. Ovvero la perfetta macchina da guerra grazie alla quale i Red Hot Chili Peppers, a partire dall’epocale “Blood sugar sex magik”, esploderanno con tutto il loro fragore. Ma prima, appunto, c’è “Mother’s milk”, album di un certo successo negli Usa (8000000 copie vendute, numero 52 in quota Billboard) che ha il merito di mettere a fuoco l’estetica dei quattro ragazzotti californiani: crossover a manetta, ritmi ossessivi, funk e rock’n’roll come parabole da lasciare ai posteri. E dodici pezzi incendiari, compreso “Magic Johnson”, dedicato, come si può intuire, al più grande playmaker di tutti i tempi. O almeno sono in molti a pensarla così. Anzi, per dirla tutta, c’è una sparuta ma combattiva minoranza pronta a giurare che colui che indossò la canotta numero 32 dei Los Angeles Lakers tra gli anni ’80 e la prima metà del decennio successivo è stato il più grande di tutti in assoluto. Più di Lui, per dire (come Lui chi?), ma non divaghiamo. E torniamo a bomba sulla quarta traccia di “Mother’s milk”, quasi tre minuti che sembrano (sembrano) lambire il repertorio dei Ramones più giocherelloni. Ma forse, al di là di qualsiasi riferimento si possa tirar fuori, ai RHCP interessava più che altro celebrare le gesta di un campione amato e rispettato da tutti. Larry Bird arrivò a dire: “La prima cosa che facevo ogni mattina era di andare e vedere i boxscore per sapere cosa avesse fatto quella sera Magic. Non riuscivo a pensare a nient’altro”.

Già, Earvin (così fu iscritto all’anagrafe Mr. Johnson da mamma Christine e papà Earvin Sr.) era un’ossessione un po’ per tutti, tranne per una Los Angeles ricopertasi vincente (a parte quei gran pipponi dei Clippers, si capisce). Nel 1989 Magic si era già infilato cinque anelli tra le dita (lo chiamarono Showtime), tre anni più tardi avrebbe completato l’opera con la medaglia d’oro conquistata dal Dream Team ai giochi olimpici di Barcellona. Esatto: quando i Red Hot si decisero a cantare le sue gesta, lui era nel pieno della maturità. Ma stiamo ancora divagando. Ecco, quindi, “Magic Johnson”, apologia del “ragazzone nero venuto per giocare a modo suo”, leader di una squadra con “una voglia di vincere che rimane intatta”. Nell’attacco del brano c’è già tutto: il basket votato all’immaginazione abbinato a una tecnica senza pari, qualità che i gialloviola avrebbero sfruttato fino in fondo. “Penetrando lungo il corridoio di gioco, veloce come un treno, arriva il sangue magico, il cervello telepatico. Quei coglioni farebbero meglio a scansarsi, quando il ragazzone nero avanza come un camion”: come a dire che il ragazzone nero era in grado di spaccare in due le difese avversarie con la sua velocità, la sua materia grigia. E che non ce n’era per nessuno quando partiva con la palla in mano. Già, tutto vero, se solo i Boston Celtics del già menzionato Larry Bird non fossero mai esistiti…
Magic ma non solo. Kiedis e soci trovano il tempo di menzionare altri protagonisti di uno dei migliori periodi della franchigia losangelina, come Byron Scott, che “causa un fallo in area” e poi “rientrando riceve una manata da un uomo di nome A.C. Green”, o James Worthy, che è “fortissimo e con la sua ascia da guerra fa canestro così tua madre ne parlerà”. E non poteva certo mancare una citazione riservata a Kareem Abdul Jabbar, altra icona dell’universo Nba, quello che “siede su un trono non per i record che detiene ma perché è caldo e coraggioso”. Esattamente come i Lakers dell’epoca.
Rimane un dubbio: cosa offrirebbe il testo di “Magic Johnson” se i RHCP lo avessero scritto nel 2014 o giù di lì? Più o meno le stesse cose, forse ci sarebbero stati l’aggiunta di qualche nome sulla lista (tipo Kobe Bryant) e un finale diverso. Che allora recitava “Una superstar di tutti tempi (…) sta arrivando nella tua città e la raderà al suolo: qualcuno vuole Magic Johnson?”. Oggi sarebbe bello suonasse più o meno così: “Fuck off Mr. Sterling, and go to hell!”. E stavolta evitiamo di tradurre.

(Da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 16 maggio 2014)