Raffaele Calvanese: Di cosa parla veramente una canzone

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Impossessarci delle canzoni che più amiamo è un’operazione quasi naturale, potremmo dire spontanea. Spesso appiccichiamo su di loro un significato del tutto personale, basato sui nostri umori, sul nostro vissuto, sul nostro modo di osservare il mondo che ci circonda. Fino a stravolgerne il significato e poco importa se le intenzioni di chi le ha vergate e musicate andavano in tutt’altra direzione. Dunque, di cosa parla veramente una canzone?
È vero, il titolo dell’opera prima di Raffaele Calvanese non contempla la presenza di un punto interrogativo. Volutamente. Non c’è bisogno di formulare una domanda in tal senso, pertanto, nemmeno di improvvisare una risposta, convincente o meno che fosse. Le canzoni diventano parte di chi le ascolta, si insinuano nella vita di chi le consuma (a volte sino allo sfinimento), giocano un ruolo di identità, di appartenenza. Certo, non le abbiamo scritte noi, anche se ci sarebbe piaciuto, ma, spesso e volentieri, vorremmo essere considerati come protagonisti di quelle storie che tanto ci prendono ed emozionano.

Lo scrittore campano di canzoni se ne intende. Lavora in un’emittente radiofonica da parecchi anni, è autore di programmi e scrive (di musica, va da sé), su alcune riviste on-line. Di che cosa parla veramente una canzone è una raccolta di dieci racconti brevi, alcuni basati sulle esperienze dell’autore, altre frutto della sua fantasia. Tra le pagine del volume prendono forma storie popolate da coppie giunte al capolinea, da ricercatori in fuga dall’Italia, si parla di radio, di innamoramenti, di amici che non ci sono più, di legami familiari, tra ricordi, commozioni, rabbia. Storie accomunate dalla presenza di una serie di brani che giocano una parte attiva all’interno della narrazione, che ne agevolano l’andamento, ne puntellano gli eventi. Calvarese finisce per coinvolgere artisti del calibro degli Smiths, Mao e la Rivoluzione, Colapesce, Pino Daniele, 24 Grana, Daniele Silvestri, Offlaga Disco Pax, Lucio Battisti, I Cani, denotando una malcelata attrazione per la musica di qualità e per il variegato mondo dell’indie rock tricolore.
Di che cosa parla veramente una canzone si affida una scrittura dinamica e colta, fluida e armoniosa, che mai si permette una sia pur piccola pausa. Non solo: i racconti allineati al suo interno finiscono per offrire al lettore un innegabile senso di partecipazione con le vicende narrate, tanto più se il lettore di cui sopra non può fare a meno della musica e del potere taumaturgico delle canzoni.

(da sololibri.net, 12 novembre 2019)

Claudio Baglioni: Il pivot

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A inizio carriera lo chiamavano Agonia. Facile capire il perché. Eppure Claudio Baglioni merita tutta la nostra attenzione e non solo quella, perché è stato (forse) il primo a dedicare una canzone allo sport più bello del mondo. “Il pivot” uscì nel 1977 ed era contenuto nell’album “Solo”. Ripercorriamone i passi principali.

Un grande interprete della canzone italiana. Anzi, no: uno stracciamaroni di dimensioni cosmiche. Con Claudio Baglioni funziona così, inutile tentare di convergere in una ipotetica via di mezzo. E allora manicheismo a manetta, tifosi del bel canto vs. difensori della purezza del rock’n’roll: una lotta senza fine. Eppure, al di là di come la si pensi, noi che tiriamo avanti a forza di pane, palla a spicchi e poco altro, il grande interprete/stracciamaroni di cui sopra dovremmo come minimo ringraziarlo. Perché Baglioni è stato il primo in Italia (al netto di disattenzioni e/o dimenticanze) a dedicare una canzone al basket. Nel lontano 1977.
Il ’77 e le P38, gli opposti estremismi a minare un Paese devastato dalla violenza. Anno di gran confusione sotto il cielo con una colonna sonora dominata, almeno fino all’esplosione della disco-music, da cantautori tristi e soprattutto impegnati. Eugenio Finardi, Francesco Guccini, Claudio Lolli, consapevolmente o meno, erano i feticci del movimento extraparlamentare di sinistra e quando Claudio Baglioni se ne uscì con “Solo” sembrava si fosse attentato all’ortodossia rivoluzionaria dell’epoca.

L’album, peraltro di buon successo (oltre 700000 copie vendute), conteneva dieci pezzi: sul lato B (c’era ancora il vinile), posizione numero tre, ecco irrompere “Il pivot”. Ode a una pallacanestro che non era più la stessa di prima, quando il centro (il pivot, appunto) si limitava e prendere e dare legnate dall’alto dei suoi due metri e passa. Il tempo avrebbe riservato ai lunghi un ruolo meno statico, Chuck Jura e John Sutter, con la loro pallacanestro all-around, rappresentavano il futuro. Ma Claudio Baglioni da cosa aveva attinto per scrivere “Il pivot”? Non lo sapremo mai, ma il sospetto che la sua fosse una visione ristretta ai playground di periferia è forte. I dubbi sono tanti, a partire dal problematico attacco: “Il pallone mi colpì, d’un tratto mi svegliai dai miei pensieri vuoti” sembra la descrizione di una partitella giocata in parrocchia, con un fesso che pensa agli affaracci suoi mentre compagni e avversari sputano sangue, fino a quando qualcuno pensa di tirargli una risolutoria pallonata in testa. A quel punto salta fuori un omone di due metri (già, il pivot), un po’ imbolsito (ha 38 anni) ma ancora efficace. Il testo prosegue descrivendo l’abbigliamento del poverino e la sua camicia a quadri, il che va a rafforzare l’ipotesi di una partita tra amici, probabilmente tra scapoli e ammogliati, oppure tra neomelodici e anticipatori del movimento grunge. Il pivot e il bell’addormentato nel campetto (si presume un play) giocano nella stessa squadra, si stimano e si cercano ma più che altro finiscono per somigliare ai protagonisti di un film di Ingmar Bergman: “andammo avanti per un po’ senza dirci una parola” è frase di una tristezza unica, evocatrice di mancanza di collaborazione o del fatto che i due si conoscono talmente bene da non aver bisogno di parole. Intanto il pivot segna a tutto spiano (“tre in fila ne azzeccò”) anche se a un certo punto ha bisogno di riposo e quel “poi ci fermammo un poco nel cortile, odor di cena e di tv” indica forse un time-out oppure, più semplicemente, che qualcuno si è rotto di starsela lì a menare e non vede l’ora di mettere qualcosa sotto i denti. Non prima di aver salutato con un’azione da manuale: “con una finta si smarcò, io svelto gli passai (licenza poetica, ndr) e lui schiacciò di forza”. È l’apoteosi. I due archiviano la gara e immaginano, con un’indubbia punta di frustrazione, che sia il pubblico sia lì ad applaudirli: “sotto il cerchio parve quasi di sentir le gradinate che tremavano e gridavano per lui e anch’io battei le mani per quell’ultimo canestro”. Il pivot se ne va, porta via il pallone, che è suo (“il pallone sotto il braccio e se ne andò”) e, chissà, la partita potrebbe essere finita non per sopraggiunta stanchezza ma per colpa di quel lungaccione antipatico scappato via con la palla: figurarsi se poteva lasciarla a qualcuno. Ma vai un po’ a discutere con uno alto due metri! Si tratta comunque un finale degno che però lascia spazio a più di un interrogativo. Tipo: perché non dire qualcosa anche degli avversari? Era un cinque contro cinque o un due contro due a metà campo? Il pivot giocava con la camicia a scacchi per un vezzo o le sue canotte erano sporche?

E la musica? Beh, diciamo che è un po’ lenta, “Il pivot” non è certo un pezzo di quelli tirati, almeno non quanto la pelle dello stesso Baglioni. Che, almeno in questo caso, si rivela uno stracciamaroni di dimensioni cosmiche. Già, la seconda che ho detto.

(da dailybasket.it, 16 aprile 2014)

Anni ’70, generazione rock, Giordano Casiraghi

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Uscito per la prima volta nel 2005 sotto l’egida di Editori Riuniti, Anni 70 generazione rock. Dai raduni pop alle radio libere torna, grazie ad Arcana, con un’edizione riveduta e corretta. Rispetto alla pubblicazione precedente, l’autore del volume, il giornalista (e molto altro) Giordano Casiraghi, ha aggiunto nuovi tasselli, rimediato a qualche dimenticanza e aggiornato il tutto.

Anni 70 generazione rock. Dai raduni pop alle radio libere è una sorta di atlante del decennio più scintillante dello scorso secolo, durante il quale la musica italiana ha raggiunto livelli di consapevolezza e libertà artistica mai toccati prima. Casiraghi lo esplora con una serie di interviste ai protagonisti più importanti di quell’epoca, non manca praticamente nessuno, all’appello rispondono pressoché tutti, da Eugenio Finardi a Umberto Fiori degli Stormy Six, passando per Ivan Cattaneo e Alan Sorrenti. Ne esce fuori un racconto a più voci, intersecato da qualche (comprensibile) afflato nostalgico, tra ricordi e aneddoti, storie, approfondimenti. Si parla anche di dischi, di radio libere, di riviste, delle difficoltà di vivere di musica, di come a volte (forse troppe) la politica sia entrata a gamba tesa tra i concerti e i raduni pop dell’epoca, con riferimenti non casuali agli autoriduttori, alla follia dei processi improvvisati sul palco (ne sa qualcosa Francesco De Gregori). Non solo rose e fiori, certo, ma sono stati anni ruspanti, ingenui, soprattutto magnifici: si sfogliavano le pagine di Ciao 2001, di Muzak e di Gong, c’erano gli Area, i cantautori, il Banco del Mutuo Soccorso, Claudio Rocchi, il prog. La musica era ribelle, sperimentare, stupire, esagerare dei doveri sacrosanti.
Una foto di gruppo limpida e mossa allo stesso tempo, scattata da un Giordano Casiraghi bravo a raccontare, a ricostruire, ad analizzare. Un libro per chi vuole ricordare, per chi, in quegli anni, era in altre faccende affaccendato e non si è accorto di quel che stava accadendo nel microcosmo del rock tricolore, per chi, per ragioni anagrafiche, non è riuscito ad assaporare certi sapori. Anni 70 generazione rock. Dai raduni pop alle radio libere è un libro che serviva, da consultare in qualsiasi momento, ricco com’è di informazioni e immagini.

(da sololobri.net del 9/10/2019)

Gass Club: Antiparticella dell’estero

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Difficile capire perché i Gass Club abbiano voluto rovinare il loro esordio con un titolo a dir poco orrido. Cosa voglia dire esattamente “Antiparticella dell’estero” non lo sapremo mai, ma in fondo poco importa. Per fortuna il contenuto del cd-r ha poco a che vedere con certe masturbazioni mentali; infatti la musica dei sei ragazzi marchigiani è una gradevole iniezione vitaminica che esprime potenza e ruvidezza. Suoni che rimandano al sound di Seattle e agli Smashing Pumpkins, sia pure con qualche spruzzata di Sonic Youth; un impatto degno di una band preparata, sicura di sé, brava tecnicamente.

Sono sei i brani contenuti nel disco, cantati in italiano, generalmente schizofrenici, rabbiosi, con poco spazio ai sentimenti – caratteristiche che in ogni caso non rendono pesante l’atmosfera del lavoro. Al contrario, la musica spicca per la sua freschezza, arrivando a poter essere definita divertente. Chitarre in primo piano, e non poteva essere altrimenti, viste le premesse, sin dalla nervosa “Tormenti”, solido brano d’apertura. Promesse mantenute con “E’ solo un sogno”, nella quale le corde di Joseph e Peo si accaparrano il giusto spazio per fraseggiare. Se “In alto” sembra un omaggio a Billy Corgan e compagni, “Che verrà” è invece una ballata semi-acustica che poco ha a che vedere con la vera anima della band. I nodi si riallacciano con l’aria vagamente pop di “Si potrebbe parlare un po’” e soprattutto con l’esplosiva “Rabbia”.

Testi minimalisti con qualche concessione, sia pur in limiti accettabili, alla banalità. Ciò che sfugge ad ogni canone è l’interessante voce di Ale. Se il suono della band si rifà agli stilemi di un certo rock d’oltreoceano, il vocalist dei Gass Club appare come una sorta di Bart Simpson incazzato. Un ulteriore input che spinge all’ascolto di questo cd-r.

(da rockit.it del 27/3/2001)

Gambo: Quadri di casa

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Gambo, pseudonimo di Marco Speroni, e Nena, al secolo Elena Conte, artista varesina, insieme per un progetto che prende il nome di “Quadri di casa”. Musica e pittura in grafica digitale collimano, combaciano, si intersecano, si tendono la mano. Le canzoni raccontano le immagini, e forse è vero anche il contrario. Sul sito web dello stesso Gambo, il risultato di un incrocio per nulla pericoloso. Vale la pena di lanciare almeno un’occhiata.

Gambo è un cantatutore, anch’egli di stanza a Varese. A quanto spiega il mare magnum della rete, la timidezza è uno dei tratti peculiari del suo carattere. Per questa ragione, musica e parole scritte nel corso degli anni sono rimasti chiuse in un cassetto. Facile da riaprire, per fortuna. È bastato un attimo ed ecco che quelle canzoni hanno ripreso a vivere, a germogliare. Una scelta azzeccata. Perché, al di là della riservatezza, c’è del talento.

“Quadri di casa” sembra un compendio del cantautorato tricolore del periodo d’oro. Tra i dieci pezzi allineati all’interno dell’album è possibile percepire echi di Francesco De Gregori (non a caso citato nel testo dell’onirica “Coniglio bianco”), di Fabrizio De Andrè, di Antonello Venditti vecchio stile (“Proiezioni” ricorda un po’ il mood di “Ora che sono pioggia”), di Lucio Dalla. Però c’è dell’altro: la waitsiana “Mefistofele”, per esempio, o la desertica “Hello”, che ricorda i Black Heart Procession. Quasi a voler sconfinare, a non porsi degli inutili limiti.

Gambo si muove in bilico tra l’acustico e l’elettrico, accarezzando la malinconia, come nella conclusiva “Teniamoli quassù”, dosando per bene l’energia (“Sognatori mai partiti”) e la gioia di vivere (“Da Marta in bici”). Tanti piccoli gioielli, ma anche (almeno) un paio di episodi che avrebbero meritato un arrangiamento migliore, in ogni modo sorretti da storie che son lì a scavare nell’intimo, nel personale, a occuparsi di “eroi sconfitti del fango della vita”. Aromi dal sapore forte, consigliati a chi non riesce a rinunciare alla canzone d’autore di qualità.

(da rockit.it)

Laago!: Le fasi del sonno

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Si parte con uno spoken word di Bob Nastanovich dei Pavement. Ancora qualche minuto di attesa ed eccone in arrivo un altro, questa volta curato da Jason Lytle, frontman dei Grandaddy. Due speech per sublimare, rievocare, restituire vita agli anni ’90. O meglio, all’indie-rock degli anni ’90. Cercati, voluti, raggiunti con la mediazione di qualche email strappalacrime. Potenza dei social, che avvicinano tutti e rendono le cose semplici, democratiche, persino belle.

“Le fasi del sonno” è l’esordio sulla lunga distanza di Laago!, progetto creato e sorretto da Andrea Catenaro. E lì dentro c’è il suono dei ’90. Soprattutto ci sono le chitarre. In un momento in cui sembra che non se le fili più nessuno o quasi. Non è questione di nostalgia. E nemmeno di infilarsi in un buco per il solo gusto di andare controcorrente. Catenaro è cresciuto a pane e Pavement, a focaccia e Pixies. Le distorsioni, il rumore, le convergenze parallele con la melodia lo hanno convinto a cercare una terza via, in grado di tenerlo legato al presente a e al pop degli anni ’00. Basta sentirlo cantare il musicista romano, con quella voce pulita e così it.pop. D’altra parte, il suono, il suo suono, non è mai aggressivo. Certo, ci sono momenti in cui si sale di tono (i clangori de “Il mostro di Cleveland”, per esempio), ma è la leggerezza a scorrazzare tra le tracce dell’album. Legato, in un certo qual modo, a reminiscenze british, a una psichedelia ondeggiante (l’attacco di “Pioggia sporca”, l’andamento caracollante della title-track), a spruzzate di elettronica gentile (“Niente”), a una paranoia ipnotica, notturna e minimale (“Occupato”), a una allegria contagiosa (“Mantra”).

L’ex Jacquieres costruisce e ricostruisce usando l’alt-rock di fine secolo scorso come un grimaldello per impreziosire una forma canzone frizzante, incisiva e, se vogliamo, libera dagli schemi, lontana da qualsiasi rigidità. Un obiettivo raggiunto con la complicità di testi ironici e al tempo stesso amari, a volte spiazzanti, ricchi di suggerimenti da cogliere al volo (“Viviamo separati o separiamo i dischi, e allora sappi che durerà”), di verità scomode (“Le persone più tormentate sono le migliori”). “Le fasi del sonno” è un album sul diventare grandi, sulla solitudine, sulla gioia di vivere, su quell’insonnia capace di renderci inerti e poco propensi ai cambiamenti. Un album che ci prende per mano, che sa come proteggerci dal buio.

(da rockit.it)

Vinegar Socks: Hand to mouth movements

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L’esordio, del 2009, fu fulminante. Per quel dosaggio pressoché perfetto, e trasversale, di folk e richiami alt-rock, di viaggi senza ritorno tra le luci (e le ombre) del Nord e omaggi a chissà quali divinità celtiche. Sono passati dieci anni da quel debutto, decisamente troppi, e avevamo perso ogni speranza di poter rivedere all’opera i Vinegar Socks. Invece, rieccoli con un nuovo album, con undici canzoni che riprendono il discorso da dove era stato interrotto.

Come hanno passato il tempo in questi ultimi due lustri i Vinegar Socks? Non è dato saperlo, di certo sono stati testimoni di un (almeno apparentemente) inarrestabile decadimento del loro (e del nostro) mondo. Peggiorato di brutto: perché negarlo? Non per niente, i temi affrontati in “Hand to mouth movements” e i relativi testi (curati dal cantante di origini nord americane Jordan De Maio) appaiono cupi, surreali, legati a una visione di una modernità disturbante, dominata da un eccesso di tecnologia. Si parla di scienza, politica, ma anche di femminismo, del fastidioso sovraccarico di informazioni che continua a sovrastare la società occidentale.

La band romana ammanta le proprie riflessioni nel modo più congeniale al proprio vissuto, alla propria indole busker. Con sonorità che si riflettono la tradizione nordeuropea – un po’ Chieftains, un po’ Waterboys in quota “Fisherman’s blues” – , con ballate in buona parte allegre e vivaci (alla faccia della cupezza dei testi…) e un’anima da cantastorie in grado di equilibrare il tutto. Svisa il violino, svisa anche il mandolino, alla ricerca di quella trasversalità che anche in questo nuovo lavoro non poteva mancare. Ecco, dunque, gli agganci pop di “Manpire theatre”, gli accenni barocchi di “The unpromoted”, i richiami blues di “Groucho”, gli echi waitsiani offerti da “Trampoline”, la bella cavalcata che risponde al titolo di “Tumochuan”, attraversata da un retrogusto psichedelico e da un certa attrazione per il prog.

“Hands to mouth movements” è il disco di un gruppo che ha ancora tante cose da dire. Aspettarli per così tanto tempo, in fondo, è valsa la pena.

(da rockit.it)

Basement3: Permafrost Walkers

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L’immagine di copertina: Roald Amudsen tra le lande del Polo Sud. Ghiaccio, gelo, desolazione. Metafora dell’inverno del nostro scontento, dal quale si può provare a fuggire aprendo passaggi sotterranei. La ragione sociale: la questione, stavolta, è meno complicata. I Basement 3 sono un trio (chitarre, basso, voce, un minimo sindacale di elettronica), e fin qui ci siamo. Ma guai a lasciarsi sfuggire il richiamo ai Basement Tapes di Bob Dylan e il legame con gli Spacemen 3. Punti di riferimento solidi, robusti, utili ad aprire i passaggi sotterranei di cui sopra.

“Permafrost walkers”, album di debutto dei Basement 3, è un condensato di psichedelia, acid rock e pop obliquo. Che si sviluppa attraverso pezzi cupi (l’opener “Your winter, my summer”), sghembi (“The inner killer sinner sight”), desertici (“The day before”), ipnotici (“Captain sail home”, “Terminal #1”). Non solo Spacemen 3 (nel calderone potremmo aggiungere i Weird Black o i Black Angels meno scalmanati): la lisergica “New shoes” ha dalla sua un retrogusto barrettiano, e poi, “The ping pong battle” non gode forse di una parentela, più o meno stretta, con “Pow r. toc h.” dei Pink Floyd di “The piper at the gates of dawn” (già, di nuovo lo zio Syd…)?

La band lombarda lascia scivolare il proprio suono tra tessiture chitarristiche acide e dissonanti, suggestioni acustiche, paranoie assortite, sinfonie allucinogene. La rinuncia alle percussioni (o quasi, c’è un accenno di batteria all’interno della già menzionata “New shoes”) è pressoché impercettibile, compensata com’è da ritmi a volte dilatati, se non stralunati, elementi tipici del variegato universo psych.

È un bell’esordio quello dei Basement 3, godiamoceli finché siamo in tempo, se non altro per impedire che l’inverno del nostro scontento torni a bussare alle nostre fragili porte.

(da rockit.it)

La Metralli: Ascendente

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“Ma io no. Io finché non sono stremato (ineconomico come sono) non disarmo”. Parole di Pier Paolo Pasolini, prese in prestito da “L’odore dell’India”. E catapultate all’interno della copertina di “Ascendente”. Una dichiarazione di intenti. Come a dire: resistere, resistere, resistere.

Per La Metralli è il quarto album in otto anni. Un cammino inquieto il loro, aperto ai cambiamenti, coerente con una visione dell’arte e della vita come crescita continua, come evoluzione. Con alcuni punti fermi. Il titolo del disco è un richiamo alla luce, a quell’ascensione che sconfigge (o tenta di farlo…) la notte dei nostri tempi bui: un ritorno al chiarore del giorno, contrapposto a quell’oscurità (oscurantismo?) che ci avvolge. E ci spaventa. Quasi logico aprire con una dedica a Mimmo Lucano (“Il sindaco”): “Lui che sognava un mondo con occhi da visionario: la chiamavano nuova civiltà, nera, bianca umanità”. La fierezza di dichiararsi buonisti. Di schierarsi. Contro la vergogna del fascismo (“Nero”), ricordando che il femminismo può essere una delle chiavi per rimettere in discussione l’organizzazione sociale (“Manifesta”). Prese di posizione lucide, anche quando le storie da raccontare non godono di un richiamo universale (“01.52 a.m.” canta della figlia di uno del componente della band appena accolta dalla vita) e preferiscono scendere tra le pieghe di un malcelato intimismo: un compito necessario, almeno fino a quando si potrà “sollevare tra le righe lembi di stupore”.

“Ascendente” è un disco ungente, realizzato in poche settimane. Rinunciando a pre e post produzioni. Lavoro duro in sala di registrazione, senza simulazioni al computer. Con un obiettivo: tirare fuori un suono di matrice elettronica usando strumenti acustici. Per ridurre al minimo la freddezza (o presunta tale) di synth e campionamenti o, forse, per assaporare il gusto di sperimentare, di mettersi in discussione. Una sfida, ecco. Vinta a mani basse. Grazie a canzoni avvolgenti, morbide, visionarie, a volte cupe, dall’incedere quasi ipnotico, divise tra attrazioni pop e richiami di ispirazione jazz (“Oceano madre”), inserite tra arabeschi dipinti da arpeggi acustici inquietanti, quasi densi, archi eleganti e malinconici, ben padroneggiati dall’intensità della voce di Meike Clarelli.

Se “Elegiaca” sa tanto di Radiohead e “Quiete” potrebbe piacere a Antony Hegart, “Riportami qui”, forte dei suoi legami con l’avanguardia, viaggia su altri binari, così come il rifacimento di “Son la mondina, son la sfruttata”, cantata assieme al coro delle Chemens des Femmes, che finisce per virare verso un afro-beat a trazione funk. A conferma di come La Metralli preferisca camminare armata di una massiccia dose di inquietudine.

(da rockit.it)

Franco Cimei: Pandora

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Un concept album. Un po’ anomalo, c’è da dirlo. Per quanto i concept album siano il regno assoluto dell’anomalia. Per capirsi (e per buttarla sul banale): inutile cercare tra le note dell’esordio sulla lunga distanza di Franco Cimei tracce di arte concettuale, suites chilometriche, omaggi al prog o all’art rock. Al cantautore abruzzese sono sufficienti una chitarra e poco altro. Quanto basta per girare attorno ai sette vizi capitali. Sette vizi capitali, sette canzoni. Avarizia, lussuria, superbia, invidia, gola, ira, accidia. Anche se si finisce per cantare di anziani, mestruazioni e cunnilingus, infatuazioni, arte, commercianti, personaggi mitologici, nozze e tarocchi. Altra anomalia. Quella più consistente, a ben vedere. Sette percorsi come pagine di un atlante personale, parecchio personale. All’interno del quale si può cazzeggiare come farsi prendere dalla malinconia, oppure, perché no, ragionare sui massimi sistemi.

“Pandora” gira essenzialmente attorno ai suoni acustici della sei corde, sporcati, di tanto in tanto, dai rigurgiti psichedelici di una tastiera acida. In “Gerontocoltura”, l’influenza di Edoardo Bennato è evidente (evidente anche una certa somiglianza con “Io che non sono l’imperatore”…), le citazioni di Rino Gaetano e Zucchero Fornaciari chiudono il cerchio tra efficaci giochi di parole e una discreta botta botta di energia compresa nel prezzo. Per il resto, Cimei preferisce arpeggiare con dolcezza (come nella title-track o in “Scugnizzo”), affidarsi a una certa tradizione di ispirazione folk (“Babilonia”) o al pop degli anni ’90 (la bella “Miraggi”). Dimostrando una personalità non indifferente, al di là di piccole cadute di tono (forse sarebbe stato necessario limare qualche lungaggine di troppo…), che comunque non riescono a intaccare la buona resa di un album che si lascia ascoltare sin dal primo impatto.

(da rockit.it)