De Rien: Canzoni profane e d’amor

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Dietro la ragione sociale si muove un duo, costituito da Flavio Fucili e Marco Pesenti. Al loro fianco un gruppo di amici con il compito di regalare sostanza e qualità alle canzoni dei De Rien. Nate e cresciute partendo dal pianoforte, alla ricerca della giusta alchimia tra musica e testi, tra un istinto cantautorale feroce e altre suggestioni che si sono fatte largo senza trovare ostacoli.

“Canzoni profane e d’amor”, secondo la visione dei suoi autori, equivale a otto tele di grandi dimensioni. Scegliere i colori, decidere a quali geometrie affidarsi, non è stato poi così difficile. I De Rien hanno scelto di dipingere storie intrise di malinconia, di sogni, di amore e sentimenti, di romanticismo, di vita, di destini allo sbando, tra ululati alla luna e mucchi di parole in costante agguato. Il percorso seguito è quello della canzone d’autore, ma c’è stato il tempo per percorrere altre strade. Che hanno contaminato le otto canzoni dell’album: riferimento non casuale agli accenni rap di “Semplice”, alla tromba davisiana di “Se fosse diverso”, al tango di “De pe a pa”, senza dimenticare il sapore di Francia che spunta qua e là e qualche spruzzata di elettronica a condensare il tutto. La voce di Marco Pesenti, un ibrido tra Fabrizio De Andrè e Mario Castelnuovo, guida con fare sicuro, la poesia dei testi regala emozioni e piccoli brividi (“Desideri in ostaggio di un domani, come gli occhi di un Modigliani”: bello, no?).

Un esordio positivo e centrato, anche se non sempre gli arrangiamenti sembrano tenere il passo. Ma va bene così, almeno per il momento.

(da rockit.it 6 gennaio 2020)

La Tosse Grassa: Ciao Darwin

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“Ciao Darwin” ce lo meritiamo. Ci meritiamo la tv spazzatura, la politica spazzatura, il cibo spazzatura. La spazzatura in genere, ecco. Per non parlare del populismo, della rabbia in libera uscita dai social, dei “Io sono Giorgia, sono una donna…” eccetera eccetera. D’altra parte, l’Italia è un Paese meraviglioso e il resto del mondo invidia il nostro stile di vita.

“Ciao Darwin” è anche il titolo dell’ultima fatica di Vanni Fabbri, meglio conosciuto come La Tosse Grassa, giunto in dirittura d’arrivo dopo l’esalogia dedicata ai Telegiornali nazionali (dal Tg1 a Studio Aperto, stranamente manca il Tg7) e un live. Un album che è lì a ribadire il concetto di cui sopra: l’Italia è meravigliosa, discendiamo dagli antichi romani e affondiamo le nostre radici nella tradizione cristiana. Ci dispiace per tutti gli altri, che al massimo potranno continuare a invidiarci con comodo, senza fretta alcuna. Un Paese, il nostro, nel quale la vecchia e piccola borghesia si è ritagliata un ruolo decisivo e sempre più aggressivo: La Tosse Grassa lo ha capito da tempo e anche in questa occasione non ha esitato un attimo a reinterpretare come un mantra le sue parole d’ordine. “Dio sei pace, Dio sei amore, scaccia via i pensieri brutti, gli africani sui barconi devono morire tutti”, canta in “Ave Sharja” (c’è anche la voce di Daniele Delogu della Barbarian Pipe Band). E in “Piazza Traini” (ricordate tutti chi è Luca Traini, vero?) immagina un futuro distopico: è il 2050, la guerra non c’è più, Diego Fusaro è al terzo mandato come presidente del consiglio, la gente si ammassa sulla spiaggia di Corridonia (cittadina nei pressi di Macerata che, al momento, dista circa 30 chilometri dal mare…) ed è felice perché in giro non ci sono più negri e nemmeno un marocchino che è uno. È la pacificazione, il trionfo della razza caucasica, della superiorità dell’uomo bianco. Che potrà continuare a vivere tra i suoi inni a Satana, la paura dell’Aids, il karaoke, il degrado, la messa la domenica, le mignotte, la depressione, l’amore eterno ma non troppo, la morte che viene da Orte, la cocaina. Già, uno stile di vita che il mondo ci invidia.

Anche in “Ciao Darwin”, il musicista marchigiano è spietato e sprezzante. Bestemmia, rutta, si prende gioco di preti, benpensanti e farisei di ogni ordine e grado. E, come d’abitudine, associa i suoi testi deliranti al solito, geniale copia e incolla, al mash up più selvaggio, seguendo il consolidato metodo della contraffattura, ovvero costruire canzoni rubando campioni da brani altrui. Tra le dodici canzoni del disco, la Tosse Grassa è riuscito a far convivere “Ramaya” e gli XTC, “I Watussi” e i Theater of hate, gli Einstürzende Neubauten e gli 883. Alternando suoni un po’ cupi, soprattutto in apertura dell’album, ad altri ben più martellanti se non (ehm…) romantici, riferimento non casuale ad “Amore perno”. E in “Chi cerca droga”, il pezzo che Mahamood (non) avrebbe (mai) voluto scrivere, è riuscito anche a reinventarsi trapper. Tanto per dimostrare di essere al passo con i tempi. Tempi in cui c’è bisogno del furore techno-punk della Tosse Grassa.

(da rockit.it, 18 dicembre 2019)

Il brodo indigesto degli Skiantos

SKIANTOS

Freak Antoni e Nino Pellacani, nei rispettivi ruoli di competenza, amavano il basket. Il brodo invece no, quello andava di traverso a entrambi…

Roberto “Freak” Antoni e Nino Pellacani. Profeta del rock demenziale il primo, nonché guida spirituale dei seminali Skiantos, anima trasgressiva del ’77 bolognese e autore di aforismi scolpiti nella roccia (avete presente il detto “La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo”? Già, è suo). Pivottone roccioso dalla grinta non comune l’altro, oltre che bandiera della Fortitudo Bologna degli anni ’80, alle spalle una vita a sgomitare sotto i tabelloni e uno scudetto vinto a Treviso nel 1992. Due storie apparentemente distanti le loro ma accomunate da una stessa passione: quella per il basket.
Freak era un tifoso della F, secondo alcune fonti in modo sfegatato, secondo altre in maniera compassata. Fatto sta che, nel 2002, prima di uno dei tanti derby con la Virtus, gli Skiantos si trovano fuori dal palasport di Casalecchio di Reno per improvvisare un concerto e il loro leader indossa una t-shirt con la scritta “Odio il brodo” bene in evidenza. Uno slogan farina del sacco del già citato Pellacani, coniato anni prima, non appena il marchio Knorr finisce sulle canotte delle V nere. Un abbinamento che copre gli anni tra il 1988 e il 1993 (per onor di cronaca, la multinazionale tedesca sponsorizzò la Virtus anche tra il 1962 e il 1965), un quinquennio fortunato per la squadra allora guidata del rampante Ettore Messina, succeduto nel 1989 a Bob Hill. In quel lustro, i virtussini chiudono in bacheca due Coppa Italia, una Coppa delle Coppe e il primo di tre scudetti consecutivi. Certo, nulla a che vedere con il Grande Slam del 2001, ma intanto l’altra parte di Bologna rosica non poco.

Freak Antoni adotta la maglietta anti-Virtus già a partire dai tour degli Skiantos di fine anni ’80, alternandola ad altre non meno feroci o grottesche, come “Jovanotti for deficient” o “Sesso orale? Parliamone”. Chi la legge e non è ferrato di palla a spicchi non capisce e si limita a collegamenti arditi con la canzone “Eptadone” (nel cui testo appare il tormentone “le massaie fan la coda per comprare la mia broda”) oppure con la copertina del singolo “Fagioli”. Ma per ascoltare una canzone che richiami esplicitamente Nino Pellacani e le sue tre paroline magiche bisognerà aspettare anni, molti anni.
È il 2009 quando esce “Dio ci deve delle spiegazioni”, quello che rimarrà, purtroppo, l’ultimo album in studio degli Skiantos. La premiata ditta Freak Antoni/Dandy Bestia sfodera un lavoro che richiama le origini della band: il suono è rozzo, grezzo e volgare, inserito tra asperità punk e frequenti puntate hard. La traccia numero nove si intitola “Odio il brodo” e il cerchio si chiude.
È un pezzo bello carico che, forte delle sue velleità post-demenziali, si scaglia contro le complicazioni della vita, il lavoro, la depressione e non risparmia frecciate ad altri nemici giurati dell’umanità come l’alito cattivo e la lana ruvida. E il basket? E la Virtus? Li troviamo coinvolti nell’attacco, quando la voce sgraziata di Freak urla la sua rabbia nei confronti del “nodo quando si scioglie, (del)la squadra ricca quando stravince”. Segnale che il testo del brano è stato scritto anni prima, quando le V Nere vincevano davvero e dall’altra parte si collezionavano dieci finali playoff in undici stagioni perdendone otto, con il “tiro da quattro” di Sasha Danilovic simbolo e madre di tutte le sconfitte fortitudine. E soprattutto, quando “Dio ci deve delle spiegazioni” esce nei negozi di dischi, la Fortitudo è all’ultima apparizione in serie A, da parte sua la Virtus vi è rientrata da appena tre stagioni. Già, Basket City, in quel momento, è un pallido ricordo.

Freak Antoni lascia la nostra valle di lacrime lo scorso 12 febbraio. E nella camera ardente allestita a Palazzo d’Accursio di Bologna, a un certo punto spunta una palla a spicchi arricchita dalla firma dei giocatori della Fortitudo. Manca quella di Nino Pellacani, che nel frattempo è diventato uno stimato grafico pubblicitario. Ma è come se fosse stata lì, assieme a tutte le altre.

“La razza eletta”, ovvero i Karamamma e Michael Jordan contro gli skinhead

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I Karamamma passarono come meteore nel mezzo del sottobosco indie-rock italiano. E tra quelle poche cose che si ricordano di loro c’è “La razza eletta”, canzone contro il razzismo che tira in ballo anche un certo Michael Jordan.

Oggi “Pick and Rock” non ve la mena con la solita band riempistadi o con cantautori in grado di scalare le classifiche di vendita dall’alto della loro tristezza infinita. A dirla tutta, questa volta non avremo nemmeno a che fare con una canzone espressamente dedicata alla palla a spicchi e ai suoi derivati. E allora? Allora calma e gesso e appuntiamo sul taccuino il seguente nome: Karamamma. Che ai più dirà poco o nulla, eppure c’è davvero qualcuno che ha provato a cavalcare l’onda (più o meno) lunga dell’indie-rock tricolore con tale ragione sociale.
Era il 1994, l’industria discografica non era stata ancora azzannata da Napster o dal Mulo e c’era gente che (udite udite…) i dischi li comprava davvero. Chi faceva la fila per accattarsi “Grace”, l’esordio di Jeff Buckley, chi per inserire nel lettore “Mellow Gold” di Beck o “American Recordings” di Johnny Cash. La scena alternativa nostrana, invece, si alimentava a forza di bocconi di Csi (“Ko de Mondo”) e Modena City Ramblers (“Riportando tutto a casa”): un mercato in salute, con fanzine ed etichette discografiche pronte a spuntare dal nulla. Tipo la napoletana Crime Squad, nel cui bouquet comparivano nomi importanti, la 99 Posse e i Bisca su tutti. Ma anche outsider assoluti come, appunto, i torinesi Karamamma. Che in quel 1994 diedero alle stampe “Siamo tanti”, il loro secondo album, un godibile concentrato di funk e rock. Tra i quindici pezzi in scaletta, ce n’era uno dal titolo “La razza eletta”. Un brano semplice, arricchito da un testo di poche parole dedicato a quei rissosi, irascibili ma in fondo (molto, ma molto in fondo) simpatici skinhead. Ecco cosa si cantava all’interno di quei due minuti e mezzo: “Hai mai provato a giocare a basket contro Michael Jordan? Hai mai provato a mandare affanculo uno come Tyson? Hai mai provato a scappare se c’è Carl Lewis che ti rincorre? Hai mai provato a suonare la chitarra come Jimi Hendrix? Mio piccolo skinhead, qual è la razza eletta?”. Un inno alla negritudine, contro il razzismo e i razzisti, un messaggio che veicola grazie anche a uno come Michael Jordan. In quel periodo è talmente famoso che anche chi non aveva mai visto una partita di pallacanestro in vita sua non poteva non sapere che quel nome e quel cognome indicavano (indicano) uno dei più grandi atleti di sempre, un autentico monumento del basket mondiale.

I Karamamma non ottennero il successo sperato, vivacchiarono fino a inizio nuovo secolo, quando se ne persero le tracce. Ma “La razza eletta”, canzone che fu anche inserita in una compilation pubblicata dal mensile “Rumore”, ha avuto l’indubbio merito di amalgamare, come filosofia del collettivo piemontese imponeva, le lotte per l’eguaglianza con le principali icone del mondo dello sport professionistico e del rock (già, Jimi Hendrix non correva, non schiacciava e non dava pugni…). Un mix tra alto e basso se vogliamo (a voi stabilire cosa sta in alto e cosa in basso), comunque sia un esperimento superato a pieni voti, che avrebbe meritato maggior fortuna. Però… Già, un però pesa persino in una storia come questa. Eccolo: Jordan aveva lasciato l’Nba per farsi largo nell’universo del baseball e nel 1994, eccolo riappropriarsi della canotta numero 23 dei Chicago Bulls, proprio mentre dall’altra parte del mondo un gruppo di sciamannati di stanza a Torino spiegava che lui è uno dei più grandi di tutti, più forte dei razzisti e delle teste pelate (ehm…). Solo una coincidenza? Non è che Mr. Air, una volta ascoltata la canzone dalle antenne della sua campus radio preferita, si sarà messo a pensare una cosa del genere: “Ma cosa ci faccio con una mazza da baseball tra le mani, non è che deludo quei ragazzi? Ma fammi un po’ andare a vedere cosa combinano Scottie e Dennis”. Chissà, potrebbe essere andata così, d’altra parte nessuno lo ha mai interpellato in merito…

(da http://www.dailybasket.it/category/rubriche/pick-and-rock/ 15 giugno 2014)

Re-Azione: Stand by

A volte è lecito chiedersi perché certi gruppi, sia pur dopo svariati demo non solo di valore, ma anche di un certo successo, e una inesauribile attività live, fatichino ancora a trovare un contratto discografico degno di tale nome. Interrogativo che rimbalza come un macigno sui Re-azione, giunti al loro decimo anno di vita e reduci dal loro sesto demo, il terzo su cd. La band marchigiana, per giunta, arriva a questo doppio appuntamento con una bella novità: l’arrivo del chitarrista Fulvio Ilari, eroe della scena punk italiana di fine anni ’80 con i Lonely Boys (qualcuno li ricorda a Torino, finali Indipendenti ’87?). La sua presenza assicura ai Re-azione non solo esperienza, ma anche (soprattutto?) una buona dose di potenza che forse in passato latitava. Ed eccolo qui “Stand-by”. Otto pezzi suggestivi, grintosi, tra intermittenze indie-rock e Afterhours, con un pizzico di Clash (quelli di “London calling”). Puro e semplice rock & roll, costruito non solo sulla potenza della chitarra di Fulvio: a rendere il lavoro convincente ci sono anche la voce di Luigi Gattafoni, che cura anche i testi, e l’intelligente uso delle tastiere, mai invadenti e sempre al posto giusto. Ne esce fuori un prodotto convincente, che diverte e lascia pensare. Le liriche, molto efficaci e sferzanti, colpiscono soprattutto quando vanno a parare dalle parti dei massimi sistemi: “Facile preda” è dedicata al più invadente dei mass-media, la televisione, mentre “L’uomo forte” sembra una dedica, per nulla benevola, ad un uomo politico italiano piccolo, pelato e piduista. Alla fine viene da chiedersi quanto tempo ancora dovranno aspettare i Re-azione per trovare il modo di uscire dall’angusto ghetto della loro “marchigianità” e superare il loro – per ora – eterno stand-by.

(da rockit.it, 4 aprile 2001)

deLorenzo: deLorenzo

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Dal cuoio capelluto di Corrado De Lorenzo, per brevità chiamato deLorenzo, spunta qualche filo imbiancato. Ci sta a cinquant’anni e passa di età. Anche se la questione potrebbe essere non solo anagrafica: vogliamo mettere lo stress? Come quello accumulato ai tempi del primo EP da solista, attraversati da più di un conflitto con il relativo produttore. Niente di che, per carità, solo qualche divergenza di vedute, ma chissà quanta neve si sarà accumulata lassù in quei momenti così difficili…

A due anni di distanza è cambiato tutto. Da un EP di quattro brani, il cantautore comasco ha deciso di cimentarsi con la lunga distanza e, inevitabilmente, si è messo alla caccia di un nuovo complice. La scelta è caduta su Riccardo Parravicini, un nome, una garanzia. Certificata da un curriculum di tutto rispetto, tra le cui pagine compaiono nomi di primo piano come quelli di Denovo, Niccolò Fabi, Max Gazzè. In “deLorenzo”, la mano di Parravicini si sente (anche il suo vissuto di produttore si sente), il lavoro in sala di registrazione, quasi tutto segmentato in presa diretta, è andato via liscio, qualche calice di vino ha riscaldato l’ambiente e il cerchio si è chiuso all’insegna della serenità.

deLorenzo ha messo insieme nove canzoni non troppo complicate, per lo più leggere, edificate in gran parte su arrangiamenti acustici, all’insegna della sottrazione. Il suo è un pop piacevole, che a volte sfocia in sonorità brit-pop, con la complicità di timide tracce di blues e accenni beatlesiani (“In ogni pelle bianca”), di archi mai invadenti, ben inseriti nel contesto. Alcuni pezzi farebbero la loro porca figura all’interno di una qualsiasi heavy rotation radiofonica (la movimentata “Come Gregor Samsa”, oppure “Le parole non dette”), i testi si fanno rispettare e vanno a parare dalle parti dei risvolti psicologici tra giovani uomini e giovani donne, con tanto di accenni autobiografici inclusi nel prezzo, di vita, di musica. Nel complesso, un disco piacevole e decisamente ben suonato, che non restituirà il colore naturale dei capelli al suo autore, ma non mancherà di strappargli più di un sorriso.

Raffaele Calvanese: Di cosa parla veramente una canzone

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Impossessarci delle canzoni che più amiamo è un’operazione quasi naturale, potremmo dire spontanea. Spesso appiccichiamo su di loro un significato del tutto personale, basato sui nostri umori, sul nostro vissuto, sul nostro modo di osservare il mondo che ci circonda. Fino a stravolgerne il significato e poco importa se le intenzioni di chi le ha vergate e musicate andavano in tutt’altra direzione. Dunque, di cosa parla veramente una canzone?
È vero, il titolo dell’opera prima di Raffaele Calvanese non contempla la presenza di un punto interrogativo. Volutamente. Non c’è bisogno di formulare una domanda in tal senso, pertanto, nemmeno di improvvisare una risposta, convincente o meno che fosse. Le canzoni diventano parte di chi le ascolta, si insinuano nella vita di chi le consuma (a volte sino allo sfinimento), giocano un ruolo di identità, di appartenenza. Certo, non le abbiamo scritte noi, anche se ci sarebbe piaciuto, ma, spesso e volentieri, vorremmo essere considerati come protagonisti di quelle storie che tanto ci prendono ed emozionano.

Lo scrittore campano di canzoni se ne intende. Lavora in un’emittente radiofonica da parecchi anni, è autore di programmi e scrive (di musica, va da sé), su alcune riviste on-line. Di che cosa parla veramente una canzone è una raccolta di dieci racconti brevi, alcuni basati sulle esperienze dell’autore, altre frutto della sua fantasia. Tra le pagine del volume prendono forma storie popolate da coppie giunte al capolinea, da ricercatori in fuga dall’Italia, si parla di radio, di innamoramenti, di amici che non ci sono più, di legami familiari, tra ricordi, commozioni, rabbia. Storie accomunate dalla presenza di una serie di brani che giocano una parte attiva all’interno della narrazione, che ne agevolano l’andamento, ne puntellano gli eventi. Calvarese finisce per coinvolgere artisti del calibro degli Smiths, Mao e la Rivoluzione, Colapesce, Pino Daniele, 24 Grana, Daniele Silvestri, Offlaga Disco Pax, Lucio Battisti, I Cani, denotando una malcelata attrazione per la musica di qualità e per il variegato mondo dell’indie rock tricolore.
Di che cosa parla veramente una canzone si affida una scrittura dinamica e colta, fluida e armoniosa, che mai si permette una sia pur piccola pausa. Non solo: i racconti allineati al suo interno finiscono per offrire al lettore un innegabile senso di partecipazione con le vicende narrate, tanto più se il lettore di cui sopra non può fare a meno della musica e del potere taumaturgico delle canzoni.

(da sololibri.net, 12 novembre 2019)

Gass Club: Antiparticella dell’estero

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Difficile capire perché i Gass Club abbiano voluto rovinare il loro esordio con un titolo a dir poco orrido. Cosa voglia dire esattamente “Antiparticella dell’estero” non lo sapremo mai, ma in fondo poco importa. Per fortuna il contenuto del cd-r ha poco a che vedere con certe masturbazioni mentali; infatti la musica dei sei ragazzi marchigiani è una gradevole iniezione vitaminica che esprime potenza e ruvidezza. Suoni che rimandano al sound di Seattle e agli Smashing Pumpkins, sia pure con qualche spruzzata di Sonic Youth; un impatto degno di una band preparata, sicura di sé, brava tecnicamente.

Sono sei i brani contenuti nel disco, cantati in italiano, generalmente schizofrenici, rabbiosi, con poco spazio ai sentimenti – caratteristiche che in ogni caso non rendono pesante l’atmosfera del lavoro. Al contrario, la musica spicca per la sua freschezza, arrivando a poter essere definita divertente. Chitarre in primo piano, e non poteva essere altrimenti, viste le premesse, sin dalla nervosa “Tormenti”, solido brano d’apertura. Promesse mantenute con “E’ solo un sogno”, nella quale le corde di Joseph e Peo si accaparrano il giusto spazio per fraseggiare. Se “In alto” sembra un omaggio a Billy Corgan e compagni, “Che verrà” è invece una ballata semi-acustica che poco ha a che vedere con la vera anima della band. I nodi si riallacciano con l’aria vagamente pop di “Si potrebbe parlare un po’” e soprattutto con l’esplosiva “Rabbia”.

Testi minimalisti con qualche concessione, sia pur in limiti accettabili, alla banalità. Ciò che sfugge ad ogni canone è l’interessante voce di Ale. Se il suono della band si rifà agli stilemi di un certo rock d’oltreoceano, il vocalist dei Gass Club appare come una sorta di Bart Simpson incazzato. Un ulteriore input che spinge all’ascolto di questo cd-r.

(da rockit.it del 27/3/2001)

Gambo: Quadri di casa

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Gambo, pseudonimo di Marco Speroni, e Nena, al secolo Elena Conte, artista varesina, insieme per un progetto che prende il nome di “Quadri di casa”. Musica e pittura in grafica digitale collimano, combaciano, si intersecano, si tendono la mano. Le canzoni raccontano le immagini, e forse è vero anche il contrario. Sul sito web dello stesso Gambo, il risultato di un incrocio per nulla pericoloso. Vale la pena di lanciare almeno un’occhiata.

Gambo è un cantatutore, anch’egli di stanza a Varese. A quanto spiega il mare magnum della rete, la timidezza è uno dei tratti peculiari del suo carattere. Per questa ragione, musica e parole scritte nel corso degli anni sono rimasti chiuse in un cassetto. Facile da riaprire, per fortuna. È bastato un attimo ed ecco che quelle canzoni hanno ripreso a vivere, a germogliare. Una scelta azzeccata. Perché, al di là della riservatezza, c’è del talento.

“Quadri di casa” sembra un compendio del cantautorato tricolore del periodo d’oro. Tra i dieci pezzi allineati all’interno dell’album è possibile percepire echi di Francesco De Gregori (non a caso citato nel testo dell’onirica “Coniglio bianco”), di Fabrizio De Andrè, di Antonello Venditti vecchio stile (“Proiezioni” ricorda un po’ il mood di “Ora che sono pioggia”), di Lucio Dalla. Però c’è dell’altro: la waitsiana “Mefistofele”, per esempio, o la desertica “Hello”, che ricorda i Black Heart Procession. Quasi a voler sconfinare, a non porsi degli inutili limiti.

Gambo si muove in bilico tra l’acustico e l’elettrico, accarezzando la malinconia, come nella conclusiva “Teniamoli quassù”, dosando per bene l’energia (“Sognatori mai partiti”) e la gioia di vivere (“Da Marta in bici”). Tanti piccoli gioielli, ma anche (almeno) un paio di episodi che avrebbero meritato un arrangiamento migliore, in ogni modo sorretti da storie che son lì a scavare nell’intimo, nel personale, a occuparsi di “eroi sconfitti del fango della vita”. Aromi dal sapore forte, consigliati a chi non riesce a rinunciare alla canzone d’autore di qualità.

(da rockit.it)

Laago!: Le fasi del sonno

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Si parte con uno spoken word di Bob Nastanovich dei Pavement. Ancora qualche minuto di attesa ed eccone in arrivo un altro, questa volta curato da Jason Lytle, frontman dei Grandaddy. Due speech per sublimare, rievocare, restituire vita agli anni ’90. O meglio, all’indie-rock degli anni ’90. Cercati, voluti, raggiunti con la mediazione di qualche email strappalacrime. Potenza dei social, che avvicinano tutti e rendono le cose semplici, democratiche, persino belle.

“Le fasi del sonno” è l’esordio sulla lunga distanza di Laago!, progetto creato e sorretto da Andrea Catenaro. E lì dentro c’è il suono dei ’90. Soprattutto ci sono le chitarre. In un momento in cui sembra che non se le fili più nessuno o quasi. Non è questione di nostalgia. E nemmeno di infilarsi in un buco per il solo gusto di andare controcorrente. Catenaro è cresciuto a pane e Pavement, a focaccia e Pixies. Le distorsioni, il rumore, le convergenze parallele con la melodia lo hanno convinto a cercare una terza via, in grado di tenerlo legato al presente a e al pop degli anni ’00. Basta sentirlo cantare il musicista romano, con quella voce pulita e così it.pop. D’altra parte, il suono, il suo suono, non è mai aggressivo. Certo, ci sono momenti in cui si sale di tono (i clangori de “Il mostro di Cleveland”, per esempio), ma è la leggerezza a scorrazzare tra le tracce dell’album. Legato, in un certo qual modo, a reminiscenze british, a una psichedelia ondeggiante (l’attacco di “Pioggia sporca”, l’andamento caracollante della title-track), a spruzzate di elettronica gentile (“Niente”), a una paranoia ipnotica, notturna e minimale (“Occupato”), a una allegria contagiosa (“Mantra”).

L’ex Jacquieres costruisce e ricostruisce usando l’alt-rock di fine secolo scorso come un grimaldello per impreziosire una forma canzone frizzante, incisiva e, se vogliamo, libera dagli schemi, lontana da qualsiasi rigidità. Un obiettivo raggiunto con la complicità di testi ironici e al tempo stesso amari, a volte spiazzanti, ricchi di suggerimenti da cogliere al volo (“Viviamo separati o separiamo i dischi, e allora sappi che durerà”), di verità scomode (“Le persone più tormentate sono le migliori”). “Le fasi del sonno” è un album sul diventare grandi, sulla solitudine, sulla gioia di vivere, su quell’insonnia capace di renderci inerti e poco propensi ai cambiamenti. Un album che ci prende per mano, che sa come proteggerci dal buio.

(da rockit.it)